STORIA
La pieve di San Lorenzo di Panico sorge a nord di Marzabotto ed è considerata una delle più belle costruzioni romaniche dell’Appennino bolognese. L’edificio conserva ancora gran parte delle strutture originarie, anche se all’inizio del secolo scorso subì un rilevante e radicale intervento di restauro che ha cancellato gli interventi strutturali moderni. Non esistono documenti specifici che relazionino la costruzione della pieve alla famiglia dei Conti di Panico, anche se i rapporti con i feudatari della montagna furono frequenti e i canonici certamente trassero giovamento dalle loro cospicue donazioni. Il primo documento che cita San Lorenzo risale al 1030, ma probabilmente il complesso era più antico, come pare confermare le vaste giurisdizioni canonicali nell’XI secolo. Nel 1208 è testimoniata una donazione relativa alla costruzione di un chiostro e nel 1248 venne realizzato il dormitorio dei canonici: queste strutture sono la testimonianza che nel XIII secolo la pieve possedeva un’articolata struttura, degna di uno dei più importanti edifici religiosi del bolognese. Inoltre, nel 1289 sono documentati il ponte sul Reno e l’ospedale annesso, anche se non sono state ancora rintracciate testimonianze certe sul loro possesso da parte della pieve.
NOTIZIE STORICO-ARTISTICHE
La storiografia relativa alla Pieve di San Lorenzo testimoniava già nel passato la monumentalità dei suoi edifici, la ricchezza dei corredi e la qualità delle decorazioni, questo stato di cose derivava dalle fortune dei Panico e visse un momento di sostanziale crisi a partire dalla fine del XIII secolo. La pieve ha una pianta monoabsidata a tre navate, le pareti sono realizzate con conci di arenaria squadrati, armoniosamente connessi soprattutto nella facciata. La qualità strutturale e le caratteristiche morfologiche ricordano la chiesa di San Pietro in Valdottavo in provincia di Lucca e di Santa Maria Assunta di Rubbiano nel Modenese. Le modifiche moderne e le ristrutturazioni novecentesche hanno mutato profondamente l’edificio, ma alcune testimonianze del passato riportano l’esistenza di monofore allungate e strette a doppia strombatura collocate sui fianchi della chiesa, mentre la muratura doveva essere caratterizzata da motivi ornamentali in mattoni policromi, similmente al complesso di Santo Stefano a Bologna. L’interno sobrio è caratterizzato da un colonnato monumentale che presenta alcuni capitelli di imitazione corinzia decorati con festoni, motivi astratti, zoomorfi o fitomorfi. La parte meglio conservata dell’edificio è certamente l’abside caratterizzato da una preziosa ornamentazione architettonica che in origine doveva svilupparsi su diverse strutture, mentre oggi risalta soprattutto nella splendida decorazione geometrica e vegetale delle monofore. Nella loro decorazione la qualità degli interventi si esplica attraverso un arco cordonato supportato da colonnine tortili con capitelli cubici e due fasce ai lati di diverse dimensioni, caratterizzate da un motivo vegetale con cornucopie o da cerchi irregolari collegati da un vimine a due capi. Il repertorio iconografico della pieve, con figure schematiche di animali e motivi vegetali, è comune a numerosi monumenti del territorio: un linguaggio di schietta aderenza romanica diffuso nel nord Italia che riuscì a mantenere una sua coerenza nel tempo, correlata all’ampia versatilità d’impiego.
LETTURE CONSIGLIATE
R. Zagnoni, La pieve di San Lorenzo di Panico nel Medioevo, in “Nuèter”, 32, 2006, n. 63, pp. 137-192.
P. Foschi, P. Porta, R. Zagnoni, Le pievi medievali bolognesi (secoli VIII-XV). Storia e arte, Bologna 2009.
R. Zagnoni, La pieve di San Lorenzo di Panico, in A. Antilopi, B. Homes, R. Zagnoni, Il romanico appenninico, pp. 78-91.
STORIA
Il complesso di Santo Stefano è composto da un insieme di edifici (cappelle, chiese e monastero annesso), conosciuti come le Sette Chiese. Secondo una leggenda Santo Stefano fu fondato da san Petronio, vescovo di Bologna tra il 431/432 e il 450, che vi si trova sepolto. Infatti, in seguito ad un pellegrinaggio in terra santa, il patrono bolognese avviò la realizzazione di un insieme di edifici destinati a riprodurre i luoghi della passione di Cristo. In realtà si dovrà aspettare la fine del IX, in un diploma di Carlo III detto il Grosso, per trovare le prime attestazioni di un Sanctum Stephanum qui vocatur Sancta Hierusalem. Attraverso le indagini documentarie e archeologiche si è scoperto che gli impianti delle chiese o cappelle di Santo Stefano risalgono a epoche diverse; come la chiesa del Santo Sepolcro dalla forma circolare è di fondazione romana, risalente al II secolo d.C.. L’edificio, identificato come un tempio, probabilmente dedicato a Iside, (ipotesi avvalorata dalla presenza di una lapide romana murata nel muro esterno della chiesa di San Giovanni Battista), è stato successivamente trasformato in una chiesa dedicata al Santo Sepolcro con all’interno un’edicola contenente le spoglie di san Petronio. Diversamente, dove sorge oggi la chiesa della Trinità, esisteva alla fine del IV secolo un’area cimiteriale cristiana, caratterizzata da un recinto e da un piccolo santuario a forma di croce. La chiesa di San Giovanni Battista (oggi detta del Crocifisso) è invece di probabile fondazione longobarda, come testimonierebbe il cosiddetto “catino di Pilato”, bacile in pietra (oggi collocato nel “cortile di Pilato”) il quale reca un’iscrizione riferibile ai re Liutprando e Ildebrando che regnarono assieme dal 736 al 744. L’opera fu trasportata nella sede attuale per ordine del cardinale Giovanni dei Medici nel 1506, mentre in origine era collocata all’interno della chiesa di San Giovanni. L’inizio dell’XI secolo fu un momento di grande splendore per il complesso, infatti l’abate Martino (ordine dei benedettini) fece costruire una cripta nella chiesa di San Giovanni Battista e il 3 marzo del 1019 vi trasferì i corpi dei santi Vitale e Agricola. Probabilmente a queste date il monastero era già articolato nelle varie strutture ancor oggi esistenti: la rotonda, la chiesa di San Giovanni, la chiesa oggi intitolata ai Santi Vitale e Agricola (dove si trovano conservati i sarcofagi dei due protomartiri) e la chiesa della Trinità. Nel 1388 iniziò un periodo difficile per la comunità ‘stefaniana’ a causa della decisione delle istituzioni comunali di realizzare una grande chiesa in onore del patrono san Petronio. I monaci corsero ai ripari riuscendo a far credere che il corpo di san Pietro fosse sepolto nella chiesa dei Santi Vitale e Agricola, dove già nel 1141 si era trovata la tomba di un Symon. Papa Eugenio IV (1431 – 1447) non tardò a reagire facendo chiudere la chiesa murandone le porte. Con papa Nicolò V (1447 – 1455) la comunità monastica venne sciolta e sostituita da preti secolari. Questa situazione non durò però a lungo infatti papa Alessandro VI (1492 – 1503), dietro pressioni del vescovo di Bologna Giuliano dalla Rovere (futuro papa Giulio II), acconsentì l’introduzione di una nuova comunità monastica formata di monaci certosini e il permesso di riaprire la chiesa chiusa al culto. Grazie alla presenza di numerose reliquie conservate all’interno del complesso i monaci furono in grado di far diventare Santo Stefano una importante meta di pellegrinaggio; ne conseguì lo sviluppo di numerose cappelle e altari all’interno del complesso, oggi non più visibili a causa di numerosi interventi di restauro avvenuti tra la fine del XIX secolo e l’inizio del XX. Nel 1876 ad esempio furono abbattute diverse cappelle nella chiesa del Santo Sepolcro, distrutti numerosi altari e smantellate le mura a sud-ovest sulle quali erano dipinte le storie di San Petronio, con lo scopo di ripristinare l’antico assetto medievale. Dal 1941 il complesso è retto dai monaci benedettini olivetani.
NOTIZIE STORICO-ARTISTICHE
L’unica via di entrata al complesso stefaniano è la chiesa di San Giovanni Battista oggi denominata del Crocifisso. Il tempio è a navata unica, con tetto a capriata; presenta il presbiterio sopraelevato (il cui accesso è consentito da una scala centrale rifatta nel secolo scorso) con al di sotto la cripta che dall’XI secolo conserva i corpi dei santi Vitale e Agricola. Quest’ultima presenta un’architettura a cinque piccole navate formate da colonne di recupero (tra queste va segnalata quella in marmo composta da due tronchi e collocata appena entrati sul lato sinistro della cripta, perché, secondo la tradizione,indicherebbe l’altezza di Cristo). I tre capitelli corinzieschi (stile che ha avuto grande diffusione locale per l’immediatezza espressiva) presenti nella cripta, decorati da figure di uomini, di quadrupedi e di uccelli risalgono probabilmente all’XI secolo. Si fanno risalire allo stesso periodo i capitelli a stampella che abbelliscono la galleria del Santo Sepolcro, le somiglianze stilistiche e tecniche. Le stampelle sono poi a loro volta decorate di figure: uomini, quadrupedi, uccelli, senza un programma iconografico riconoscibile, e senza ordine. I rilievi sono modellati con grande semplicità; risultando talvolta sommari e schematici. All’interno della chiesa di particolare interesse è l’edicola del Santo Sepolcro che rappresenta il luogo della sepoltura di Cristo e l’angelo marmoreo del XIII secolo (affiancato dalle pie donne e dai soldati dormienti), collocato sopra l’apertura, simboleggia la Resurrezione. La scritta sottostante indica che qui sono conservate le spoglie di san Petronio. Di fianco i simboli degli Evangelisti dagli evidenti caratteri lombardi. Riferibile all’XI secolo è anche il sarcofago di sant’Agricola, malgrado il ritmo disteso delle grandi figure di cervo e del leone affrontati, conservato appunto nella chiesa dei Santi Vitale e Agricola. Il tempio dedicato ai protomartiri, edificato nel IV secolo, fu ricostruito secondo lo stile romanico-lombardo nel XI secolo (le coperture a vola degli spazi alti della basilica). Si può far risalire allo stesso periodo la targa, che decora esternamente la chiesa, con il Redentore tra i Santi Vitale e Agricola. Si tratta ovviamente di un artefice di modesta statura al confronto con l’autore del sepolcro del protomartire bolognese e di quello che decorò la facciata della chiesa per la realizzazione dei modiglioni coi simboli degli Evangelisti (dei quali solo due sono giunti fino a noi). Di epoca più tarda è la decorazione dell’archivolto che decora il portale d’accesso alla chiesa della Trinità con intrecci e decorazioni di gusto post-wiligelmico, con un fare leggermente trattenuto, ma non privo di eleganze anche sontuose nella definizioni dei racemi perforati dal trapano. All’interno della chiesa è anche conservata una lignea Adorazione di Magi presepe del XIV secolo dipinto dal celebre pittore bolognese Simone di Filippo detto dei Crocifissi. Accanto alla chiesa della Trinita sorge il chiostro del monastero, costituito da un doppio ordine di logge datato all’XII-XIII secolo. Le cinquantadue colonnine binate che costituiscono il secondo ordine impreziosicono l’edificio. La tradizione vuole che Dante passando per Bologna fu talmente colpito dai capitelli antropomorfi che queste figure sembrano le stesse dei contrappassi della Divina Commedia. Ad esempio le membra contorte e rovesciate di alcune figure come quella dell’uomo oppresso dal peso dell’arco (a ridosso della chiesa del Crocifisso) avrebbe ispirato il poeta la famosa similitudine dei superbi che camminavano ricurvi a causa dei pesanti massi posti sulla loro schiena. Il percorso del complesso si conclude con la visita al Museo di Santo Stefano dove sono conservate sculture, pitture che vanno dal XIII al XVIII secolo, importanti reliquiari come quello realizzato dal celebre orafo Iacopo del Roseto per conservare il capo di san Petronio e la Sancta Sanctorum, cioè l’insieme delle reliquie custodite dai frati per secoli.
LETTURE CONSIGLIATE
Nel segno del Santo Sepolcro. Santo Stefano di Bologna. Restauri, ripristini-manutenzioni, a cura di L. Serchia, Vigevano 1987
Sette colonne e sette chiese. La vicenda ultramillenaria del complesso di Santo Stefano, a cura di F. Bocchi, Bologna 1987
B. Borghi, In viaggio verso la Terra Santa. La basilica di Santo Stefano in Bologna, Bologna 2010
Tra il corso del Montone e del Ronco si trova la pieve di S. Pietro in Trento. Il nome deriva dalla posizione in cui sorge la chiesa: al miglio numero trenta (secondo i criteri della centuriazione romana) del decumano che percorre la parte nord del Forlivese.
L’edificio, la cui muratura presenta materiale di rimpiego, è dedicato ai Santi Pietro e Paolo e si caratterizza come un sistema basilicale a tre navate. La facciata ha una larga bifora sopra l’arcata della porta e una sporgenza mensiliforme che si può riscontrare anche in altre chiese del ravennate come S. Pietro in Sylvis (RA).
Vi sono quattro lesene che preannunciano la ripartizione interna delle navate. La fiancata è movimentata da un’archeggiatura pensile con monofore sotto archetti tripli. L’interno, semplice e raccolto, presenta dieci pilastri birostrati, soffitto ligneo a capriate e abside circolare all’interno e poligonale all’esterno.
Il presbiterio sopraelevato, con altare marmoreo a cippo, nasconde una cripta a oratorio, che in ambito locale ricorda la cripta della basilica di S. Francesco (RA) e ancora di più quella della già menzionata pieve di S. Pietro in Sylvis. Anche il materiale della cripta risulta essere di rimpiego.
L’edificio è stato interessato da vari restauri ( in particolare nel 1912- 1913 e nel 1923- 1927) che gli hanno restituito la sua forma originaria (tra il XVIII e XIX secolo, infatti, in seguito a delle modifiche, aveva assunto forme baroccheggianti). Per effetto di tali interventi il pavimento è stato riportato al suo antico livello.
Durante l’ultimo conflitto mondiale il campanile venne distrutto insieme agli affreschi della cella inferiore, risalenti al XV secolo e falsamente attribuiti a Melozzo da Forlì.
La datazione dell’edificio è incerta, anche se si propende per collocarlo agli inizi del IX secolo. La sua cripta è invece considerata posteriore ed è datata intorno al 1000 – 1026.
Unico elemento certo è che i più antichi documenti della pieve risalgono al 978.
STORIA
Nella prima fascia collinare che si staglia alle spalle di Bologna, sulla sommità del colle di San Benedetto, presso il colle dell’Osservanza, sorge dal principio del XIX secolo la neoclassica villa che Antonio Aldini volle far costruire e che oggi proprio al ministro napoleonico è intitolata. La villa fu innalzata smantellando parte degli edifici preesistenti che afferivano al complesso religioso della Madonna del Monte. Nel 1938, Guido Zucchini che da anni studiava il complesso alla ricerca di testimonianze precedenti gli stravolgimenti ottocenteschi, smantellando la partitura muraria dell’ex sala da pranzo circolare portò alla luce le nicchie con gli straordinari affreschi bizantini. Sulla scorta degli interventi di restauro che coinvolsero l’edificio romanico, nel 1939 lo Zucchini pubblicò una monografia che trattava ampliamente sia della storia del complesso monastico, sia delle importanti vicende artistiche che avevano avuto il loro principio nel XII secolo. Secondo lo Zucchini la testimonianza della fondazione della rotonda si trovava in una cronaca del 1465, redatta da Graziolo Accarisi, che riportava ammantandola di leggenda la storia di Picciola Galluzzi. Infatti, la ricca e devota vedova si era ritirata a vita eremitica sul colle di San Benedetto quando una colomba disegnò un ampio circolo con dei grossi pezzi di legno, Picciola, accorsa sul posto, dopo essersi consultata con le istituzioni religiose cittadine, decise la costruzione di un edificio circolare che venne dedicato a Santa Maria Vergine. Sulla scorta di questa tradizione si volle datare la fondazione dell’edificio al 1116, avvicinandolo ad altre opere architettoniche dei colli promosse da pie dame bolognesi. Infatti, nel 1140 una Cremonina Piatesi costruì un romitorio sul colle di Ronzano , mentre le due sorelle Azzolina e Beatrice Guezzi nel 1160 fondarono quello del colle della Guardia. Una devozione femminile che richiama certamente il ruolo delle dame della nobiltà bolognese nella fondazione delle comunità religiose, un ruolo importante che non verrà meno anche nell’Epoca Moderna. La chiesa dedicata a Maria Vergine e il romitorio annesso vennero effettivamente confermati nel 1205 da Innocenzo III come pertinenze del convento Benedettino di San Felice. Una aneddoto importante è legato alla figura di San Domenico, poiché nell’agosto del 1221 il santo ammalato venne condotto dai suoi frati alla Rotonda, per trovare un po’ di giovamento dall’aria fresca del luogo. Sentendosi prossimo alla morte ordinò di essere ricondotto in San Domenico, poiché in caso di morte in altro luogo la comunità avrebbe perso la sua sepoltura, così con la suspanse del caso i frati riuscirono a ricondurlo alla basilica. Il XV secolo sarà un’altra stagione di grande fortuna del complesso mariano, poiché la vigilia dell’Assunta del 1443, il popolo bolognese preceduto dalle milizie di Annibale, si recò in processione per ringraziare la Vergine della vittoria di San Giorgio in Piano sulle truppe viscontee. Iniziò la tradizione della processione dell’Assunta che con alterne vicende durerà fino al 1758. Inoltre, per la volontà di illustri committenti quali i Bentivoglio ed il cardinal legato Bessarione il complesso, ormai spettante alla comunità benedettina di San Procolo, fu ingrandito, completato da un chiostro e da altri edifici sacri splendidamente decorati. Tali edifici, che subirono ulteriori cambiamenti nel XVII secolo, vennero quasi completamente cancellati dall’architetto Nadi al momento della costruzione di Villa Aldini.
NOTIZIE STORICO-ARTISTICHE
Al di là delle leggende, che almeno sulla figura di Picciola Galluzzi potrebbero rivelarsi anche veritiere, la cultura architettonica che emerge dalla Madonna del Monte è certamente quella del XII secolo, invero legata ad altre costruzioni regionali, dalla Rotonda di Sacerno a Santa Maria di Calamosco. Nel 1973 gli studi della Nikolajević e di Bergonzoni sull’edificio misero in piena luce la sua importanza ed il ruolo specifico nel panorama delle costruzioni romaniche regionali. La Madonna del Monte venne costruita interamente in mattoni con un diametro di 10 metri, l’edificio attuale è frutto di pensanti interventi di restauro, avviati da Zucchini negli anni trenta del Novecento, un aspetto interessante è che il funzionario bolognese utilizzo la parte meridionale esterna, la meglio conservata, per ricostruire le parti mancanti. Insieme all’architettura l’aspetto certamente più interessante è dato dagli splendidi affreschi romanici rappresentanti gli apostoli e conservati nelle grandi nicchie collocate sulla parete. La critica li ha sempre letti in relazione alla pittura bizantineggiante che tra XII e XIII secolo caratterizzò la cultura artistica della regione, inoltre il programma pittorico abbastanza diffuso nella penisola, mostra una sostanziale derivazione dalla cultura veneziana del XII secolo, che era solita elaboralo attraverso il mosaico, come nella basilica di San Marco. L’intervento, certamente da ascrivere a più botteghe, mostra una qualità altalenante, la cui cultura artistica è però fondata su un lessico marcatamente bizantino che risente anche nella partitura del colore, nel sovradimensionamento delle mani e in un certo naturalismo, celato dai rigidi contorni, della pittura di area lombarda dell’XII secolo. Le belle figure trovano dei punti di contatto con la tavola bolognese della Madonna di San Luca, e sono portatori di una langue stilistica che raggiungerà il suo vertice nella cupola del Battistero di Parma, capolavoro indiscusso della pittura duecentesca emiliana.
LETTURE CONSIGLIATE
G. Zucchini, La Madonna del Monte a Bologna, Bologna 1939
I. Nikolajević, P. Bergonzoni, F. Bocchi, Arte romanica a Bologna, La Madonna del Monte, Bologna 1973
R. SERNICOLA , Gli affreschi romanici della Madonna del Monte a Bologna: considerazioni di iconografia, in “Quaderno”, M.AE.S, X, 2007
La Basilica di San Pietro in Sylvis sorge a circa mezzo chilometro dalla città di Bagnacavallo (RA) ed è la più antica e meglio conservata tra le pievi di Romagna. Perfetto esempio di architettura protoromanica, è databile attorno al VI-VII secolo, come sembra indicare lo stile di due arcate ornamentate del ciborio.
Tre secoli dopo la costruzione della Basilica fu innalzato un campanile cilindrico che nel 1668 fu abbattuto, perché ritenuto pericolante. Esso venne ricostruito dopo il restauro della pieve, avvenuto nel 1933.
Agli inizi del XVII secolo (1605), nel luogo dove oggi sorge la pieve furono rinvenute iscrizioni marmoree dedicate a Giove (ora conservate nel Palazzo dei Diamanti di Ferrara) le quali indicano l'esistenza di un precedente tempio destinato al pubblico culto.
L'edificio, costruito con mattoni di varia grandezza, ha l'abside orientata a levante. La facciata, orientata a ponente, come si riscontra nelle basiliche cristiane, è spoglia e disadorna, ad eccezione delle lesene che scandiscono anche all’esterno la ripartizione interna in tre navate, e presenta due porte: una al centro e una, più piccola, a sinistra. La sua uniformità è interrotta, oltre che dalle lesene, da una bifora al cui centro è posta una colonnina di marmo, tipica delle chiese ravennati (San Francesco, San Giovanni Evangelista).
Anche l'abside, semicircolare all'interno e poligonale all'esterno, risente dei modelli ravennati e presenta tre finestre con arco a tutto sesto. Notevoli sono i suoi affreschi (1320-1325), con scene della crocifissione di matrice giottesca recentemente attribuiti al pittore Pietro da Rimini (Rimini, ...? – circa 1345).
L'interno di semplice mattone crea continuità stilistica con l'esterno. La navata mediana è più spaziosa delle altre. Quelle laterali sono divise da sedici pilastri, otto per lato, e formano nove arcate a tutto sesto. Il soffitto della navata centrale, di legno scuro, è a doppia capriata. Due scale conducono al presbiterio sovrastante la cripta, elevato di due metri circa rispetto al livello della chiesa.
La modifica più evidente della pieve, benché questa sia giunta a noi essenzialmente nella sua forma originale, è ravvisabile nella cripta, la cui costruzione è avvenuta in epoca posteriore. Di aspetto massiccio, essa ha il pavimento abbassato di mezzo metro rispetto a quello della chiesa. Presenta volte a crociera, e il raccordo delle volte ai pilastri è ottenuto tramite capitelli a piramide tronca rovesciata. Al centro si trova un altare con lastra di marmo greco databile intorno al VII – VIII secolo. Il materiale utilizzato (i mattoni e le colonne) risulta essere frutto di reimpiego.
La cripta può considerarsi posteriore alla chiesa sia per l'aspetto della struttura muraria, sia perché le più antiche chiese ravennati originariamente non avevano cripte o presbiteri sopraelevati. Il metodo costruttivo a crociera può farla datare all' XI secolo, presentando analogie con la cripta di San Vittore di Ravenna (andata distrutta nel corso della seconda guerra mondiale). Quest'ultima era infatti costituita da volte a crociera sostenute da quattro colonne e aveva un' appendice nella piccola navata presente anche in San Pietro in Sylvis. Inoltre la cripta della Basilica Ursiana (Duomo di Ravenna), con forma a mezza luna, è presa come esempio di transizione tra la più antica forma semianulare e la forma ad oratorio; la cripta di San Pietro in Sylvis, con forma a pieno oratorio, è quindi databile, con un buon margine di sicurezza, tra la fine del X e l’inizio dell’ XI secolo.
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