STORIA
Il primo documento scritto riguardante la Pieve di San Martino in Rafaneto risale al 1059, altresì la sua prima testimonianza certa è datata 1230. Talune informazioni ci raccontano che questo piccolo luogo di culto fosse il primitivo insediamento di Verrucchio, successivamente trasferitosi sulla cima della collina in posizione fortificata. Il nome originale era infatti Plebs Verucolin o Plebs Sancti Martini de Veruclo. Si presume che la costruzione sia ascrivibile al XII secolo, ma dai recenti studi, a fronte degli interventi di restauro, è stata ipotizzata l’esistenza di una precedente architettura, sorta sulle fondamenta di un insediamento romano; a conferma di tali ipotesi pervengono a noi numerosi ritrovamenti di mattoni manubriati e di altri frammenti. Durante gli scavi archeologici del 1893 sono state portate alla luce tre lapidi sepolcrali romane, d'epoca imperiale, e un orologio solare dello stesso periodo, che oggi sono conservate presso la rocca del Sasso. Il cenobio raggiunse il suo apice nei secoli a cavallo tra Medioevo e Rinascimento, mentre pervenne ad un progressivo decadimento a partire dagli inizi del XVII secolo, quando i suoi titoli furono trasferiti. Nei secoli successivi ha subito diversi riutilizzi agricoli, che hanno profondamente inciso sullo stato di conservazione dell’emergenza artistica, fino ai recenti ed ardui lavori di restauro e recupero che ne hanno rimesso in luce le parti romaniche originarie.
NOTIZIE STORICO-ARTISTICHE
La pieve è un edificio di culto realizzato con pietra locale, presenta delle parti originali di epoca medievale qualificandosi come un’opera organizzata secondo lo schema classico dell’arte romanica. Infatti, la presenza di un’unica navata con un’abside semicircolare, ascrivibile al X secolo, e la massiccia torre campanaria, sono emblemi di una cultura tardo-romanica ancora radicata in questo territorio nel XIII secolo. Questa chiesa si trova ai piedi della rupe di Verrucchio, fuori dall’abitato di San Martino in Rafaneto, e il suo utilizzo agricolo ha determinato l’inserimento della facciata in una casa colonica, oggi disabitata. L’edificio costituisce nel suo insieme architettonico un complesso di vigorosa imponenza. A determinare questa impressione vi concorrono innanzitutto le proporzioni del campanile, ma anche la geometria dell’abside preromanica, emergente dalla testata piana dell’unica navata, e soprattutto la rustica muratura di tutta la struttura, fatta di conci latini sommariamente squadrati e disposti in modo irregolare con pietre di diverso tipo e di diverso colore. Di particolare interesse sono le terminazioni parietali esaltate dalla presenza di grossi blocchi di arenaria squadrati alla perfezione. Per quanto riguarda l’assetto strutturale romanico, abbiamo già individuato due elementi per i quali quest’opera desta la nostra attenzione: la navata e il campanile. In tal senso risulta apprezzabile, nonostante l’asimmetria, anche la partitura delle feritoie. Negli interventi di restauro effettuati è emersa la presenza di prodotti scultorei ascrivibili all’ars romanica, come un rilievo decorato con rappresentazioni zoomorfe. Si tratta in questo caso di un rilievo logoro che non permette la perfetta lettura storico-artistica e che sembra rivelare la raffigurazione di un ariete, sovrastato dalla probabile rappresentazione di una collina stilizzata tesa a metaforizzare l’impedimento della vista del mare dalla chiesa. Proseguendo nel lato sud della navata troviamo quattro feritoie murate, l’ultima, quella verso l’abside, presenta un architrave decorato con motivi fitomorfi in rilievo. L’abside preromanica è aperta da tre finestrelle a doppio strombo ed è coronata da archetti pensili, mentre due lesene sono debolmente disegnate da corsi verticali quasi privi di aggetto. L’interno, cui si accede attraverso la casa colonica, rivela ciò che all’esterno non appare chiaramente: la chiesa è infatti interamente scoperchiata. Nonostante questo la muratura appare piuttosto salda, le teste dei muri sono sigillate da cemento e protette da coppi, e l’abside, inquadrata da un arco perfettamente ogivale, è stata restaurata con cura.
LETTURE CONSIGLIATE
S. Stocchi “Italia-Romanica/l’Emilia-Romagna”, Jaca Book, Milano, 1984.
C. Curradi, Pievi del territorio riminese nei documenti fino al mille, Rimini 1984.
L. Bernardi, Verucchio: guida storico-artistica illustrata, Verucchio 2004.
La Pieve romanica di San Pietro in Messa, si trova nella località di Ponte Messa, a pochi chilometri da Pennabilli, in provincia di Rimini. L’attuale struttura del tempio risale al XII secolo, ma alcuni documenti testimonierebbero l’esistenza della Pieve già nel 912. Quel che è certo è che il luogo scelto per la costruzione dell’edificio corrispondeva ad un preesistente sito romano, come rivela l’antica ara romana che ancora fa da base all’altare. Non a caso, l’insediamento romano sul torrente Messa, da cui deriva il nome dell’attuale paese e della stessa Pieve, rappresentava un punto strategico dell’iter Tiberinus. La zona fu evangelizzata nel V secolo e cadde prima in mani longobarde, poi franco-carolinge. Nel XII secolo l’edificio fu interessato da una radicale opera di riqualificazione, quasi certamente opera di maestranze lombarde. Le forme attuali della Pieve dichiarano infatti l’appartenenza al più tipico stile romanico padano: la facciata a capanna, con due salienti laterali, rispecchia la pianta basilicale interna a tre navate, una centrale più alta, due laterali di dimensioni ridotte. Sul portale di ingresso, di particolare finezza cromatica, si notano i resti di un protiro, sopra il quale si apre una piccola bifora divisa da una colonnina in pietra. L'archivolto del protiro poggia su due lastre rettangolari, sotto le quali sporgono due mensole di pietra, scolpite con figure simboliche. Nella mensola di destra compare l'immagine di un Cane alato che ringhia; nella faccia interna si scorge invece un Dragone con la coda attorcigliata. Sugli spigoli è istoriata, da un lato, un’Aquila con le ali spiegate, dall'altro, una Testa d'ariete con le corna arcuate. Al centro, l'Albero della vita, simbolo cristologico. Nella mensola sinistra, in entrambe le facce laterali ricorre un nastro intrecciato. Il resto della facciata è animata da lesene verticali e cornici orizzontali. Girando intorno all’edificio è possibile ammirare la piccola torre campanaria quadrata, che si erge al termine del fianco sinistro, ed il sobrio catino absidale semicircolare, squarciato da monofore centinate. Lo spazio interno è suddiviso da quattro arcate a tutto sesto, rette, nelle prime tre campate, da pilastri poggianti su plinti quadrati e, nell’ultima, da semipilastri a sezione quadrata. L’ambiente appare spoglio, poiché gli ornamenti originali sono andati in gran parte perduti. Si trovano comunque capitelli residui, intagliati con varie figurazioni. Della cripta rimane solo il portale d’ingresso, mentre nell’abside si possono scorgere tracce dell’antica decorazione. Il visibile impoverimento della Pieve fu dovuto al graduale abbandono del sito. Nel XVI secolo il fonte battesimale du trasferito nella Collegiata di San Bartolomeo in Penna e nel corso del ‘700 la chiesa fu ristretta e adibita in gran parte a casa colonica. Solo alla fine dell’ultima guerra l’antica Pieve fu restaurata e restituita alla sua originaria funzione religiosa.
Pieve di San Giorgio Argenta
La graziosa Pieve di San Giorgio è situata a circa un chilometro dal centro abitato di Argenta, sulla Strada Cardinala per Campotto, alla destra del fiume Reno. La chiesa venne fondata nel 569 dall’arcivescovo di Ravenna Agnello e rappresenta il sito religioso più antico della provincia ferrarese. Il bellissimo altare ravennate, ornato con agnelli recanti croci e due colonnette d’iconostasi, che si trova all’interno dell’edificio risale a questa prima fase, così come i frammenti di affreschi e di pavimento musivo ritrovati nell’abside e oggi esposti presso il Museo Civico di Argenta. Sotto le fondamenta sono stati inoltre rintracciati i resti di un tempio più antico, forse destinato al culto ariano, come testimonierebbe il ritrovamento di un preziosa fibbia bronzea di fattura ostrogota, anch’essa conservata nel museo di Argenta.
Nel corso dei secoli l’edificio subì numerose manomissioni, anche a causa delle varie ricostruzioni rese necessarie dall’instabile terreno alluvionale su cui fu eretto. A causa dei depositi fluviali il piano attuale della Pieve risulta infatti circa tre metri al di sopra rispetto a quello originale. Nel XII secolo la chiesa fu ampliata con due navate laterali, terminate da un’abside pentagonale. Sulle facce esterne dei muri perimetrali rimangono le tracce degli archi a lesena che ripartivano le navate, rimosse nel corso del XVI secolo. Degli arricchimenti del XII secolo, forse voluti dall’arcivescovo Gualtiero, rimane comunque traccia nei lacerti di affresco visibili all’interno e, soprattutto, nell’elegante portale romanico in marmo, che sull’architrave riporta la data 1122 e il nome del suo artefice, Giovanni da Modigliana. Sempre sull’architrave è scolpita una coppia di Grifoni, affiancati ai lati da due piccole figure nude, forse raffiguranti Adamo ed Eva. Anche i capitelli che incorniciano l’architrave sono istoriati con figure grottesche. Da notare le formelle degli stipiti, in cui, nonostante il cattivo stato di conservazione, è possibile riconoscere, anche grazie alle scritte riportate alla base di ciascuna, un’interessante raffigurazione dei Mesi. La lunetta è invece decorata con il Martirio di San Giorgio, identificato dall’iscrizione SANCTUS GEORGIUS, inserita nella ruota della tortura. A Partire dal XIII secolo, il sito, isolato e posto in una zona fortemente alluvionale, fu progressivamente abbandonato, come dimostra il trasferimento del fonte battesimale nella chiesa di San Nicolò, avvenuto tra il 1252 e il 1262. Oggi la chiesa si trova ai limiti della riserva naturale delle Valli di Campotto, parte del Parco regionale del Delta del Po. La visita alla Pieve può dunque rappresentare l’occasione per esplorare anche la zona circostante, di alto interesse naturalistico e dotata di aree attrezzate, percorsi pedonali e piste ciclabili.
STORIA
L’antica Abbazia fu fondata nel 752 dall’abate benedettino Anselmo, già duca longobardo del Friuli. Anselmo, con l’aiuto della popolazione locale, decise di edificare la chiesa e il monastero dopo aver ricevuto in dono da re Astolfo, suo cognato, il territorio di Nonantola. nel 756, il complesso appena edificato e consacrato dal vescovo di Reggio Emilia e del metropolita di Ravenna, accolse le spoglie di papa S. Silvestro, a cui appunto spetta, insieme agli Apostoli Pietro e Paolo, l’intitolazione della chiesa. Grazie al favore dei sovrani longobardi, dei successivi dominatori franchi e alla lungimirante amministrazione dei vari abati che si successero alla reggenza, l’Abbazia di Nonantola acquisì un indiscusso prestigio politico oltre che religioso. Lo dimostra il passaggio di numerosi personaggi illustri: nell'837 il cenobio ospitò l'imperatore Lotario, nell'883 l'imperatore Carlo il Grosso vi incontrò papa Marino e nel 1077 vi soggiornò, dopo il celebre episodio di Canossa, papa Gregorio VII. A dispetto della sua importanza, il sito subì nei secoli numerose devastazioni, tra cui la terribile incursione degli Ungari del 889, che ridusse in completa rovina sia la chiesa che il monastero. Ad ogni distruzione seguì comunque una solerte opera di riedificazione, e così avvenne anche in seguito al terremoto nel 1117 che causò danni talmente ingenti da costringere all’ennesima ricostruzione. I lavori ebbero inizio nel 1121 e conferirono al complesso abbaziale l’aspetto romanico che, fatte salve le non trascurabili alterazioni subite nei secoli successivi, è possibile ammirare ancora oggi.
ESTERNO DELLA CHIESA
Le fattezze esterne della chiesa, frutto del rifacimento seguito al terremoto del 1117, ricalcano a grandi linee quelle della cattedrale della vicina città di Modena, il cui cantiere era stato avviato nel 1099. La terminazione a capanna della facciata è affiancata da due salienti che segnalano la minore altezza delle navate laterali rispetto a quella centrale. La partizione interna dell’edificio è rispecchiata in facciata anche dalle due grandi semicolonne che individuano tre sezioni distinte, ognuna delle quali ritmata dalla presenza di lesene e archetti pensili. Nel segmento mediano compaiono tre grandi arcate cieche, di cui quella centrale incornicia le uniche aperture della facciata: in alto, una bifora, in basso, il portale scolpito. Da notare come la pietra bianca che connota questi ultimi elementi contrasti con il laterizio rosso del paramento murario. Il portale è attribuito alle stesse maestranze wiligelmiche che realizzarono i primi portali del Duomo di Modena, dei quali riprende in effetti la struttura sostanziale: un protiro retto da due colonne con capitelli fogliati e poggianti su leoni stilofori contiene il portale istoriato. Nella faccia frontale degli stipiti sono inserite due sequenze di formelle, entrambe rette da Telamoni, che narrano, a destra, Le storie dell’infanzia di Cristo, a sinistra, La fondazione dell’Abbazia di Nonantola. La parte interna è invece decorata con un tralcio vegetale abitato da disparate figure reali e fantastiche, secondo le più consuete convenzioni della scultura romanica padana. Sull’architrave, non decorata, è riportata l’iscrizione relativa al rifacimento dell’edificio avvenuto dopo il terremoto del 1117. Nella lunetta è invece scolpito a rilievo il Cristo Giudice tra due Angeli e i simboli degli Evangelisti, attorniati da una ghiera decorata a racemi e figure animali. Sul fianco meridionale è addossata una loggia a due piani risalente al XV secolo: gli archi del pian terreno sono sostituiti, nel piano superiore, da colonnine in cotto architravate. Si tratta dell’unica parte superstite dell’antico chiostro. Percorrendo il portico verso est si giunge alla zona absidale. L’abside maggiore è percorsa da cinque arcate cieche di ampiezza decrescente, suddivise da semicolonne. Al centro compare una bifora, speculare a quella che si vede in facciata, con ai lati due grandi monofore strombate. Sopra e sotto gli archi corrono, come sulle altre facce esterne dell’edificio, due sequenze di archetti pensili. Le absidi laterali, rientrate e di minore altezza, sono invece caratterizzate dalla presenza entro ogni arcata di fregi a beccatelli, elementi tipici degli edifici fortificati.
A destra della facciata della Basilica si trova il Palazzo Abbaziale. L’edificio fu totalmente ristrutturato nel corso del XVIII secolo, quando fu adibito a Seminario, ma conserva comunque alcuni elementi più antichi, come il bel portale gotico. Il palazzo è oggi sede dell'Archivio e della Biblioteca Abbaziali, in cui sono conservate le preziose testimonianze della millenaria vitalità culturale, religiosa e politica del cenobio; all’interno dello stesso edificio è allestito anche l’interessante Museo Benedettino Nonantolano e Diocesano di Arte Sacra, che ospita importanti opere d’arte provenienti dalla stessa Abbazia.
Terminata la visita del museo si prosegue a sinistra su Via Marconi. Giunti al numero civico 11, si accede nel giardino del Palazzo Comunale in cui si trova la Sala degli affreschi, decorata con un raro ciclo di pitture murali databili tra la fine dell’XI e l’inizio del XII secolo. I lacerti, emersi solo nel 1983, abbellivano l'antico refettorio dell'abbazia e rappresentano scene della Vita di San Benedetto e degli Atti degli Apostoli.
INTERNO
Poderosi pilastri quadrilobati dividono lo spazio interno, sobrio e maestoso, in tre navate longitudinali, che corrono verso il presbiterio sopraelevato. L’altare maggiore è costituito dall’originaria Arca di S. Silvestro, le cui otto lastre, raffiguranti gli episodi salienti della vita del santo, furono eseguite tra il 1568 e il 1572 dallo scultore Jacopo Silla de’ Longhi. Sotto il presbiterio si trova la cripta, che costituisce la parte più antica della chiesa, precedente alla ricostruzione dell’inizio del XII secolo. Le volte a crociera di questo vasto ambiente, che occupa lo stesso spazio del presbiterio soprastante, sono rette da 64 colonne e 22 semicolonne in cotto. Di grande pregio alcuni capitelli originali, risalenti a varie epoche. I più antichi, forse databili già all’VIII secolo, hanno caratteristiche tanto peculiari da essere definiti di tipo longobardo-nonantolano: si tratta di capitelli fogliati, a due o tre ordini sovrapposti, i cui rilievi scolpiti sono fortemente accentuati. I capitelli più bassi e aggraziati, decorati a palmette e sormontati da pulvini, sono invece più tardi (secoli XI e XII). Nella cripta sono conservati i resti di S.Anselmo, fondatore dell’Abbazia, S. Adriano III papa, S. Senesio, S. Teopompo, S. Fosca e S. Anseride. Tornando nella navata destra è possibile ammirare, entro un arco gotico, un pregevole affresco della seconda metà del XV secolo, attribuito al Maestro della pala dei Muratori. Le scene, divise in tre fasce, sono: in alto, la Crocifissione; al centro, l'Annunciazione; in basso i SS. Martino, Gregorio, Giovanni Evangelista, Giacomo Maggiore, Silvestro, Antonio Abate, Giorgio. Nella navata sinistra, vicino l’ingresso, si trova il fonte battesimale di forma ottagonale, che incorpora alcuni frammenti antichi.
Bisogna notare che l’attuale aspetto delle basilica è in gran parte frutto di una radicale campagna di restauro svoltasi tra il 1913 e il 1917 che, non senza scelte arbitrarie, tentò di ripristinare le antiche fattezze romaniche dell’edificio. In quell’occasione furono ad esempio demolite le volte a crociera della navata, sostituite con un tetto a capriate. Altri interventi di rilievo furono quelli relativi al presbitero, riportato a livello originale, e alla cripta, liberata dall’interramento del XV secolo.
Storia
Il 30 aprile del 1106 le reliquie di San Gimignano, vescovo e patrono di Modena vissuto nel IV sec. d.c., furono traslate nella cripta della nuova cattedrale cittadina, dedicata a Maria Vergine Incoronata. Il 7 ottobre del medesimo anno, il pontefice Pasquale II giunse in città per effettuare la ricognizione dei preziosi resti del santo e per consacrarne l’altare. Alla solenne cerimonia assistettero la magna comitissa Matilde di Canossa, il vescovo, i nobili (milites) e i borghesi (cives), ossia tutto il consesso cittadino che aveva unanimemente deliberato la costruzione dell’edificio, in sostituzione dell’antico Duomo ormai pericolante. La prima pietra del nuovo tempio era stata posta il 9 giugno del 1099, data che viene tramandata dall’epigrafe celebrativa retta da due delle figure scolpite sulla facciata, raffiguranti il patriarca antidiluviano Enoch e il profeta Elia. Il distico che conclude l’iscrizione contiene l’elogio dello scultore dei celeberrimi bassorilievi che ornano il fronte esterno della chiesa, ossia Wiligelmo. In un’altra epigrafe, posta all’esterno dell’abside maggiore, è invece menzionato l’architetto Lanfranco, “famoso per ingegno, preparato e competente direttore dei lavori, reggitore e maestro” del cantiere della Cattedrale. Le due iscrizioni celebrative, in cui vengono nominati gli artefici principali della “Domus clari [...] Geminiani”, testimoniano l’alto orgoglio municipale dei modenesi e la loro comprensibile soddisfazione per l’esito dei lavori fin lì eseguiti, che di fatto fruttarono uno dei massimi capolavori del romanico europeo. Nonostante questa prima prolifica fase, l’edificio fu definitivamente completato solo alcuni decenni più tardi e un’altra lunga iscrizione, scolpita sui blocchi di pietra del fianco meridionale, commemora la cerimonia di consacrazione della cattedrale officiata il 12 luglio del 1184 da papa Lucio III. Gli ultimi stadi di lavorazione furono condotti a termine da nuove maestranze di estrazione campionese che, a partire dalla seconda metà XII sec., subentrarono ai lapicidi comacini inizialmente guidati da Lanfranco. L’attività dei maestri campionesi proseguì comunque ben oltre la data ufficiale di consacrazione della chiesa, tanto che ancora nel 1319 le cronache registrano il compimento della cuspide ottagonale della torre campanaria (la “Ghirlandina”) da parte di Enrico da Campione. Oltre a gran parte della decorazione interna, i campionesi furono responsabili di alcuni sostanziali interventi in chiave gotica che alterarono l’originario aspetto romanico dell’esterno dell’edificio: è il caso del grande rosone e dei due portali laterali della facciata, o dell’imponente Porta regia realizzata intorno al 1178 sul fianco destro, in aggiunta alla preesistente Porta dei principi, risalente al primitivo cantiere lanfranchiano.
Esterno
Il visitatore attento si accorgerà della mirabile organicità fra l’esterno e l’interno della cattedrale modenese: due possenti contrafforti frazionano infatti la facciata in tre parti, corrispondenti al numero delle navate interne. Anche gli spioventi che fiancheggiano la cuspide centrale, suggeriscono la minore altezza delle due navate laterali rispetto a quella principale. Ad ogni navata corrisponde un portale, tra cui spicca quello mediano, dotato di un monumentale protiro, a sua volta sormontato da un’edicola. Le colonne del protiro poggiano su leoni stilofori risalenti al I sec. d. C., che rappresentano, pertanto, un classico esempio di reimpiego di materiale antico in un cantiere medievale. D’altronde, le stesse cronache segnalano durante i lavori il “miracoloso” ritrovamento di «miras lapidum marmorumque congeries», ossia di numerosi marmi romani che supplirono in buona parte alla costante penuria di materiale costruttivo. Lungo gli stipiti e l’archivolto del portale si dipana un’ininterrotta decorazione scultorea: su un fitto sfondo a carattere vegetale campeggiano figure umane, animali, mitologiche tipiche dell’affascinante quanto complesso immaginario fantastico e simbolico della civiltà medievale. Nella parte interna degli stipiti sono invece raffigurati i profeti dell’Antico Testamento. I rilievi del portale sono opera di Wiligelmo, così come le scene tratte dal libro della Genesi contenute nelle quattro lastre inserite sulla facciata, a ragione considerate una delle testimonianze più significative della scultura romanica europea. Nella prima, posta sopra il portale minore di sinistra, si succedono entro un teoria di archetti pensili le scene della Creazione del mondo, della Creazione di Adamo e del Peccato originale. La seconda lastra, alla sinistra del portale maggiore, raffigura La cacciata dei progenitori dal Paradiso terrestre e La condanna al lavoro della terra; appena sopra è visibile la lapide che riporta la data di fondazione della cattedrale e il celeberrimo elogio di Wiligelmo, retta dai profeti Elia ed Enoch; Nella terza lastra, posta alla destra del portale mediano, la scena del Sacrificio di Caino e Abele è seguita dall’Uccisione di Abele; nell’ultima, situata sopra il portale minore di destra, sono raffigurati Lamech che uccide Caino e Il diluvio universale, in cui compare un’affascinante raffigurazione dell’Arca di Noè in forma di basilica. Ai lati della base dell’edicola che sormonta il protiro, sono da notare altre due mirabili lastre eseguite da Wiligelmo, contenenti Geni funerari che spengono la fiaccola della vita. Si tratta di una elegante ripresa di un tema classico tratto dai sarcofagi di età romana. Sopra i portali, la facciata è percorsa da una fascia di archetti pensili poggianti su peducci a protomi, sovrastata da una grande loggia costituita da sei trifore inscritte entro alte arcate cieche. Tale motivo si ripete lungo i fianchi e le absidi, garantendo così l’unità ritmica dell’edificio. Sempre a Wiligelmo e alla sua officina vanno addebitati i mirabili capitelli figurati delle semicolonne che incorniciano le trifore. Opera dei maestri campionesi è invece il grande grande rosone, leggermente strombato, che corona in alto la facciata, eseguito entro la prima metà del XIII secolo. Le maestranze campionesi realizzarono anche la Porta Regia, monumentale ingresso situato sul lato meridionale che si affaccia sulla Piazza Grande. Eseguita entro il 1231, la Porta Regia si distacca consapevolmente dagli altri portali di impronta lanfranchiana, più semplici e austeri, conformandosi invece alla più fastosa tradizione lombarda. La porta, la cui preziosa bicromia è dovuta all’utilizzo del costoso marmo rosa di Verona, presenta un ampio protiro sormontato da una loggia in cui è conservata una statua in rame di San Geminiano, opera di Geminiano Paruolo (1376). Il fregio dell’arco del protiro è decorato da un ricco filare di rose che compare anche nella cornice del rosone della facciata. La volta a botte del protiro è sostenuta all’interno da un elegante fascio di colonnine annodate e all’esterno da due colonne poggianti su leoni stilofori che azzannano una preda. All’interno del protiro si apre il grande portale preceduto da una complessa strombatura. Sul lato meridionale è situata anche la Porta dei Principi, risalente al primitivo cantiere lanfranchiano. La sua struttura ricalca in termini semplificati quella del portale maggiore della facciata, con un protiro sostenuto da leoni stilofori e coronato da un’edicola concava. Gli stipiti sono decorati sul fronte esterno da un ininterrotto tralcio abitato da una congerie di figure reali e fantastiche; sulla faccia interna sono raffigurati, entro piccole nicchie, gli Apostoli. La fitta decorazione vegetale continua anche sull’archivolto soprastante. Nell’architrave sono invece narrati Sei episodi della vita di San Geminiano, relativi al suo viaggio in Oriente compiuto per liberare dal demonio la figlia dell’Imperatore Gioviano. I rilievi del portale sono attribuiti al Maestro di San Geminiano, strettamente legato alla lezione di Wiligelmo, e al più schematico Maestro dell'Agnus Dei. Sulle testate dei contrafforti sono poste quattro delle otto copie (le altre stanno sulla fiancata opposta) delle cosiddette Metope, celebri emblemi della straordinaria decorazione scultorea del Duomo di Modena, i cui originali sono oggi conservati nel Museo Lapidario. Le Metope, raffiguranti figure umane mostruose, furono realizzate nei primi decenni del XII secolo da un geniale scultore anonimo, forse allievo di Wiligelmo, ma certo informato della coeva arte borgognona. Tornando verso le absidi, all’altezza del transetto, si nota un pulpito eseguito nel 1501 da Jacopo da Ferrara. Nell’ultima arcata del fianco meridionale è invece murata una lastra con Quattro episodi della vita di S. Geminiano, firmata dallo scultore toscano Agostino di Duccio nel 1442. Nel retro dell’edificio si sviluppano tre absidi cilindriche, le due laterali simmetriche e quella centrale, più alta e leggermente più aggettante. In quest’ultima, appena sopra la finestrella centrale, si trova la lapide con l’iscrizione in cui è ricordato il nome dell’architetto Lanfranco. Nel complesso, anche la zona absidale ripete la partitura architettonica e decorativa della facciata e dei fianchi laterali. A fianco delle absidi si erge l’imponente torre campanaria, orgoglioso simbolo della città di Modena, meglio nota come Ghirlandina. I cinque piani dell’originale struttura romanica a pianta quadrata furono realizzati entro il 1179. Essi sono divisi da una serie successiva di cornici sovrapposte ad archetti pensili e sono aperte, progressivamente, da finestre monofore, bifore e trifore. Tra il 1261 e il 1319 la torre subì un ulteriore sviluppo, raggiungendo la ragguardevole altezza di 88 metri, grazie all’aggiunta di una base ottagonale culminante in una cuspide piramidale. La guglia, di spiccato gusto gotico, fu progettata da Arrigo da Campione e appare impreziosita da due “ghirlande”, ossia leggiadre balaustre di marmo, da cui deriva appunto l’affettuoso nomignolo. La torre svolgeva anche un’importante funzione difensiva, nonché di forziere pubblico in cui erano conservati gli atti e i trofei della città, come la celebre secchia rapita, oggetto a lungo conteso tra modenesi e bolognesi, che ispirò l’omonimo poema eroicomico di Alessandro Tassoni (1565-1635). Sul fianco settentrionale dell’edificio è da notare la Porta della Pescheria, nella quale si ripete in sostanza lo stesso schema delle altre porte realizzate prima degli interventi dei campionesi: Il portale incorniciato da stipiti decorati, raccordati da architrave a archivolto, è contenuto entro un protiro a due piano sostenuto da leoni stilofori. L’incongruenza dimensionale fra la lunghezza dell’architrave e l’archivolto rivela ad ogni modo le manomissioni successive subite dal portale originale. Un tralcio vegetale abitato da figure disparate, tra cui alcune tratte dalla favolistica antica, decora la faccia esterna degli stipiti del portale. Quella interna presenta invece un interessante Ciclo dei Mesi, ognuno dei quali indicato da un’iscrizione abbreviata e rappresentato attraverso la raffigurazione di un momento peculiare della vita contadina. I rilievi dell’archivolto narrano invece episodi ispirati all’affascinante leggenda bretone di Re Artù, già diffusa in tutta l’Europa medievale a partire dalla prima metà del XII secolo grazie alla Historia Regum Britanniae di Goffredo di Monmouth.
Design by Brego_Web