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STORIA
Situata nel Comune di Codigoro, l’abbazia di Pomposa manca di fonti storiche che documentino con precisione la sua fondazione. Probabilmente il primo cenobio era già presente nel territorio definito “insula Pomposia” tra il VI e il VII secolo, ma la prima notizia attendibile risale all’874, quando papa Giovanni VIII rivendicava la giurisdizione sul monastero contro le pretese della Chiesa di Ravenna. Nel 982 l’imperatore Ottone II la cita in un atto come oggetto di donazione compiuta dai suoi genitori al monastero di San Salvatore a Pavia. I monaci però riuscirono nel 999 a ottenere dall’imperatore la donazione all’arcivescovo di Ravenna, atto che portò al conseguimento di privilegi e concessioni papali e imperiali che permisero di raggiungere la piena autonomia del cenobio nel 1022.
La fioritura dell’abbazia nei secoli successivi non fu solo legata alle condizioni politico-istituzionali e religiose, ma venne favorita grazie al territorio nel quale sorge il cenobio: l’insula Pomposiana definita geograficamente fino al secolo XII da due rami principali del Po (Po di Volano a sud e il Gauro o Po di Goro a nord) era ubicata lungo la via Popilia, chiamata nel medioevo Romea, perché collegava l’Europa nord-orientale con Roma. Inoltre il luogo separato dal mare Adriatico dalla laguna deltizia, godeva di un clima salubre e di terreni bonificati, altamente fertili. Questo portò ad una forte aumento demografico incentivato da una fiorente attività agricola. Il territorio di proprietà dell’abbazia era amministrato economicamente e giuridicamente con conduzione diretta del monastero mediante il gastaldo giuridico (rappresentante dell’abate).
Lasciti e donazioni arricchirono Pomposa di possedimenti sparsi un po’ ovunque in Italia. L’espansione economica e quella spirituale-culturale progredirono di pari passo, raggiungendo l’apice nell’XI secolo sotto la direzione dell’abate Guido. Fu in questo periodo che il monastero venne ampliato e dotato del grande chiostro (oggi solo parzialmente esistente), di torri, e del palazzo della Ragione, assumendo l’aspetto di una cittadella fortificata.
Nel 1152 con la rotta di Ficarolo (gli argini del Po ruppero in quella località ubicata a monte di Ferrara) il territorio subì un tale sconvolgimento che provocò la scomparsa dell’insula e l’intero impaludamento dell’area. Il lento cambiamento delle condizioni geografiche fu fatale per Pomposa che vide i monaci decimati dalla malaria. Altri fattori che facilitarono la decadenza furono certamente le tensioni politiche presenti nell’Italia settentrionale e le mire espansionistiche degli Este esercitavano da Ferrara.
Nella prima metà del Quattrocento Pomposa venne trasformata in commenda, mentre nel 1553 dipese dal convento di San Benedetto di Ferrara, dove vennero trasportati beni mobili, arredi sacri e la preziosa biblioteca. Il monastero venne soppresso dal papa Innocenzo X nel 1663, ma gli ultimi monaci lasciarono definitivamente Pomposa nel 1671. L’abbazia visse così secoli di totale abbandono, fatta eccezione per la chiesa eletta parrocchia dal 1663. In seguito alle soppressioni napoleoniche, le strutture del convento vennero utilizzate come magazzini agricoli e luoghi di servizio, fino al 1920 – 1930 quando l’intero complesso fu oggetto di restauro che le restituì l’attuale configurazione all’abbazia.
NOTIZIE STORICO-ARTISTICHE
La chiesa di Santa Maria di Pomposa è caratterizzata da una pianta basilicale a tre navate. L’abside centrale è di forma semidecagona, tipologia caratteristica dell’area ravennate, attestate per un lungo lasso di tempo (per esempio la ritroviamo nella chiesa più antica di San Apollinare in Classe). La chiesa abbaziale fu costruita probabilmente tra il 751 e l’874: parte del tempio è infatti costituito da materiale architettonico di spoglio proveniente da Ravenna, che nel 751 cadde rovinosamente sotto il dominio longobardo per mano di re Liutprando. In questa fase la chiesa, che andava a sostituirsi al primitivo sacello, attorno al quale si era creata due secoli prima la comunità di monaci benedettini, coincideva solo in parte con la pianta attuale; terminava infatti all’altezza dell’attuale settima campata. La struttura della chiesa subì diverse modificazioni, come hanno chiarito gli scavi archeologici. Tra il IX e il X secolo, nel lato sinistro venne costruito un nartece, dotato di bifore a doppia ghiera. Inoltre sempre in questo periodo, probabilmente, la chiesa terminava con tre absidi, di cui quella centrale era caratterizzata da proporzioni maggiori. Da un’iscrizione inserita nel pavimento della chiesa si ricava che il 7 maggio del 1026 (o del 1027) la chiesa venne ridedicata. Questo avvenimento coincide con l’abbaziato di San Guido (1008. – 1046) e quindi con un periodo di importanti trasformazioni e ampliamenti in tutto il monastero. Tra il 1000 e il 1026 venne rifatta la cripta in forma di oratorio,venne inserito all’interno della chiesa il nartece e furono quindi aggiunte due nuove campate. Le finestre del nartece vennero chiuse e fu aggiunto un portale nell’arcata centrale d’accesso; di conseguenza l’ingresso si rimpicciolì notevolmente. Sempre in questo periodo si edificarono l’attuale atrio e il campanile. Si pensa inoltre che questi interventi fossero commissionati dall’arcivescovo di Ravenna, Geberardo (1028-1044). Infatti nell’epigrafe della sua tomba, situata nella sala capitolare del monastero, vi è scritto “PONTIFICIS MAXIMI CORPVS IACET HIC GEBERARDI// PER QVEM SANCTA DOMVS CREVIT ET ISTE LOCVS”, dove per “sancta domus” e per “iste locus” si intendono i lavori di ampliamento sia della chiesa sia del monastero. L’esecutore dell’atrio fu “Mazulo magister”, nome tramandatosi grazie all’epigrafe murata a destra della facciata. L’atrio presenta tre ampie arcate sorrette da semipilastri ottagoni. Si viene quindi a creare una zona d’ombra che fa risaltare agli occhi del fruitore la decorazione di superficie, costituita da mattoni bicolori, sculture, fasce in cotto e bacini ceramici. Negli elementi decorativi si avverte un forte senso di orizzontalismo dato dalle fasce nastriformi in cotto, dalla disposizione dei rilievi di pietra e dei bacini ceramici. Questi ultimi elementi sono estranei alla cultura locale, ma ben si accordano al complesso decorativo. Particolare è infatti la loro inserzione, soprattutto per il loro effetto chiaroscurale nella contrapposizione con gli altorilievi chiari raffiguranti il leone, l’aquila e il pavone. In seguito alla scoperta di residui di vernice negli incavi delle fasce decorative, gli studiosi ritengono che tali elementi decorativi fossero in origine interamente smaltati, ovvero ricoperti di vernice poco lucida in pasta vitrea applicata probabilmente in seconda cottura con tonalità svariate. Nell’impianto decorativo Mazulone utilizzò come punto di riferimento l’arcata centrale creando una composizione fortemente equilibrata. Il repertorio attinge sia dalla cultura orientale, come i bacini ceramici, le transenne in stucco i fregi a tralcio abitato; sia dalla cultura locale come i mattoni triangolari, bicolori, rossi ed ocra. Questi ultimi però vengono utilizzati in composizioni inconsuete che danno vita a motivi decorativi riproposti soprattutto nel romanico bolognese. Grazie ad una lapide posta sul basamento si è tramandato anche il nome del responsabile del campanile, il maestro Deusdedit e l’anno di fondazione, 1063. La torre campanaria presenta l’uso di materiale di reimpiego: come il frammento di ciborio della prima metà del IX secolo inserito sotto l’epigrafe, oppure come il frammento di architrave murato verticalmente. Inoltre gli elementi che costituiscono le finestre sono frammenti tardo antichi, paleocristiani e alto medievali. Nel campanile vennero anche inseriti le formelle in cotto e i bacini ceramici, ma non più nella maniera equilibrata dell’atrio, bensì senza un ordine logico. La torre campanaria poi si conclude con una guglia di età gotica.
All’interno della chiesa sono visibili più cicli decorativi che presero avvio nell’VIII secolo per concludersi nel XIV con gli affreschi di Vitale e della sua scuola con la realizzazione delle storie di Sant’Eustachio nell’abside, dell’Apocalisse lungo la navata centrale e del Giudizio Universale nella parete di controfacciata. Ancora visibili, ma pressoché allo stato di lacerti pittorici, sono i profeti dipinti sulla parete dell’antico nartece, realizzati intorno ai primi decenni dell’XI secolo e le storie di San Pietro lungo la navatella meridionale. La lettura di questi ultimi parte dalla zona absidale e presenta una sequenza degli episodi più salienti della vita del santo: L’apparizione di Gesù sul lago di Tiberiade; San Pietro consacra i primi diaconi; La predica di San Pietro ai neofiti; La resurrezione di Tàbita; La caduta di Simon Mago (?); San Pietro risana lo storpio . Le scene si caratterizzano per grande semplicità linguistica dettate probabilmente dalla funzione didascalica della rappresentazione.
Di grandissimo interesse è il pavimento, il cui disegno è diviso in quattro settori distinti: i primi tre, a partire dalla zona absidale, appartenevano al coro dei monaci, realizzato durante i lavori voluti da San Guido. Il primo tratto in mosaico mostra un disegno geometrico a cerchi intersecati che formano elementi fusiformi con foglie. La vicinanza di questa tipologia decorativa con mosaici provenienti da basiliche ravennati del VI (per esempio Sant’Apollinare in Classe), fa pensare all’uso di materiale di recupero.
La seconda parte del pavimento utilizza una tecnica mista, mosaico e settile: nel campo quadrato spicca un nastro continuo che disegna quattro cerchi angolari e accompagna il gioco di quadrati, triangoli, rombi in minuti pezzi di marmi colorati, disposti in cerchi concentrici. Da un grande tondo centrale partono i bracci di una croce, dove è incisa la data della riconsacrazione della chiesa (7 maggio 1026).
Nel convento si possono visitare l’aula capitolare con affreschi della scuola riminese e il Museo Pomposiano, dove sono raccolti i numerosi oggetti d’arte depositati durante la “fase di abbandono” in diversi luoghi del complesso. La collezione comprende materiali eterogenei che partono dal VI secolo fino al XIX, provenienti da scavi, restauri o ritrovamenti fortuiti, riconducibili alla storia del complesso abbaziale. In particolare si segnalano i plutei pertinenti all’arredo interno della chiesa dell’XI secolo, nei quali sono raffigurati animali fantastici racchiusi entro tondi a nastro intrecciati tra loro.
LETTURE CONSIGLIATE
M. Salmi, L’abbazia di Pomposa, Milano 1936 (1966)
Pomposa. Storia, arte, architettura, a cura di A. Samaritani e C. Di Francesco, Ferrara 1999
C. Di Francesco, L’Abbazia e il Museo di Pomposa, Roma 200
S. Pasi. La pittura monumentale in Romagna e nel ferrarese fra IX e XIII secolo, Bologna 2001
STORIA
Il monastero benedettino di Bobbio, fondato nel 614 dal monaco irlandese Colombano, fu per tutto il Medioevo uno dei più importanti centri monastici d'Europa e ricoprì un ruolo molto significativo dal punto di vista religioso, politico e culturale. Questo primitivo monastero, durante il governo dell'abate Agilulfo (883-896), fu abbandonato e ricostruito in un'altra posizione con una nuova chiesa abbaziale. Successivamente, quando nel 1040 gli abati di Bobbio ottennero la dignità vescovile e si crearono due poteri separati tra vescovi e abati, si cominciò ad assistere alla decadenza del monastero originario e ad una separazione tra le due chiese; infatti all'abbaziale si contrappose la costruzione nel 1075 di una nuova cattedrale da parte del vescovo-conte Guarnerio. Questi due maggiori monumenti hanno subito nei secoli successivi delle notevoli modifiche, che ci impediscono di ricostruire le tracce delle antichità medievali. Infatti come la cattedrale del vescovo Guarniero fu radicalmente trasformata, anche la chiesa abbaziale di San Colombano, ampliata nel corso del Trecento, è stata ricostruita con forme rinascimentali intorno al 1456 e affrescata a partire dal 1526. Quindi dell'antico complesso abbaziale romanico si conservano solo la torre campanaria, l'absidiola e uno splendido mosaico pavimentale nell'attuale cripta.
NOTIZIE STORICO-ARTISTICHE
L'originaria chiesa abbaziale presentava un interno a croce latina con tre navate e tre absidi, oltre al transetto non molto sporgente. Era divisa a metà da una grata di ferro che separava il coro dei monaci dallo spazio riservato ai fedeli. La composizione pittorica della navata centrale è opera di Bernardino Lanzani da San Colombano al Lambro databile al 1526-30 ed è ricca di figure relative per lo più a santi. L'edificio era provvisto anche di transenne marmoree di epoca longobarda usate per i sepolcri di S. Attala e S. Bertulfo e da un grande mosaico didascalico sul pavimento. Di tutti questi arredi molti si sono conservati, come la cripta trasformata e divisa in due vani separati, dove al centro si trova il sarcofago di San Colombano, sul quale vi sono scolpiti gli episodi più salienti del suo operato. Nella scala di accesso alla cripta, sotto il livello del pavimento, si conserva un esteso brano di mosaico pavimentale dell'edificio antico, che è stato ritrovato nel 1910. Questo mosaico è in gran parte integro ed è ascrivibile alla prima metà del XII secolo. I temi trattati sono simili a quelli presenti nei mosaici di San Savino a Piacenza e di San Michele a Pavia e sono ricavati dal secondo libro dei Maccabei, dalla enciclopedia medievale per quanto riguarda le lotte degli animali fantastici e dalla teoria dei mesi e dei mestieri. É infatti raffigurato un ciclo completo con le allegorie dei mesi accanto ai soggetti simbolici e didascalici. Inoltre il mosaico è diviso in quattro registri, dove nei primi due la lotta tra il bene e il male è raffigurata da un centauro e una chimera che si affrontano, da uomini acefali che combattono contro un drago e da storie bibliche di scontri tra giudei e pagani. Gli altri due registri inferiori invece contengono le allegorie dei mesi all'interno di riquadri separati da colonnine, affiancate da altre due scenette, una delle quali è illeggibile e l'altra raffigura una nave a vela con due marinai. Il complesso abbaziale inoltre ospita il museo dell'abbazia, che contiene una raccolta di materiali archeologici e opere legate alla figura di San Colombano dal IV al XVIII secolo e il museo della città.
LETTURE CONSIGLIATE
M. Tosi, San Colombano in Bobbio, in Monasteri Benedettini in Emilia-Romagna, Milano 1980.
S. Stocchi, San Colombano a Bobbio, in Italia Romanica. L’Emilia-Romagna, Milano 1984.
A. Attolini, Il monastero di San Colombano in Bobbio, Modena 2001.
STORIA
Costruita sulla vallata del Samoggia, l’abbazia di Monteveglio, intitolata alla Madonna, venne eretta per celebrare la vittoria di Matilde di Canossa su Enrico IV. L’imperatore infatti venne sconfitto nell’assedio della rocca matildinica Monteveglio avvenuto nel 1092. La storia è quasi leggenda, infatti Enrico IV venne vinto da un pugno di uomini che non solo riuscirono a resistere per mesi, ma persino il figlio dell’imperatore perse la vita nello scontro finale. Fu l’inizio del suo declino: nel viaggio di ritorno in Germania tentò di assalire il castello di Matilde, ma venne sconfitto nuovamente. Tornato in patria fu detronizzato. Come atto di ringraziamento, la grande contessa fece edificare l’abbazia di Monteveglio che si aggiunse alla chiesa già esistente. Il monastero fu affidato all’ordine agostiniano di San Frediano di Lucca, ma nel 1455 passò ai Canonici Laternanensi di San Giovanni in Monte di Bologna. La chiesa viene anche ricordata per aver ospitato Ugo Foscolo, il quale, viaggiando sotto mentite spoglie, venne imprigionato perché sospettato di essere una spia austriaca.
NOTIZIE STORICO-ARTISTICHE
L’assetto attuale dell’abbazia è dovuto dal restauro diretto dall’architetto Rivani avvenuto tra il 1925 e il 1934. L’intento è stato quello di riportare il complesso allo stato originale, eliminando gli ammodernamenti avvenuti nel corso dei secoli, ritenuti posticci e non autentici. Fondata nel V secolo, la chiesa mantiene ancor oggi l’assetto romanico, assunto in epoca matildinica. Il tempio presenta una facciata originale del XII secolo orientata a ovest. La pianta è a tre navate, con il presbiterio sopraelevato per ospitare nella zona sottostante l’antica cripta. Questa è divisa da quattro campate di pilastri e colonne, termina con tre altari corrispondenti a tre absidi e in quello centrale è presente un’autentica pietra tombale di epoca romana con decorazione a cornici concentriche. Nella navata destra si trovano opere di epoca longobarda: l’acquasantiera, e uno dei capitelli presenti che riproduce le tipiche forme tratte dall’oreficeria di produzione langobardorum. Da notare le monofore delle absidiole ancora in alabastro e mai sostituite. Dalla navata centrale una scala di epoca barocca conduce al presbiterio, posto sopra la cripta e illuminato da monofore chiuse da lastre di alabastro. Al centro del presbiterio a tre absidi c’è l’altare di marmo rosso di Verona, poggiato su cinque colonne mentre ai lati si può ammirare lo splendido coro rinascimentale in noce. Notevoli sono pure le splendide absidi visibili dal retro, abbellite da archetti pensili e da monofore. Curioso è inoltre il campanile che non poggia su alcuna fondamenta, ma è stato semplicemente edificato su una delle absidi. All’interno del complesso sono visibili due chiostri, il maggiore, realizzato nel Quattrocento, presenta un loggiato superiore che dava l’accesso alle celle dei canonici. Nel porticato inferiore sono visibili antiche lapidi dipinte volte a ricordare la storia del monastero. Invece, il chiostro più antico, collocato sul retro, è andato in gran parte distrutto: è infatti sopravissuto solo un lato ancora decorato da capitelli antropomorfi risalenti al XII secolo.
LETTURE CONSIGLIATE
Nono centenario dell’abbazia di Monteveglio 1092 – 1992, in L’abbazia e la sua storia, atti del convegno di studi, 30 settembre – 11 ottobre 1992, Perugia 1995
G. Rivani, Il castello e l’abbazia di Monteveglio: memorando nei secoli, Bologna 1953
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