STORIA
La chiesa dei SS. Simone e Giuda a Sanguinaro, nel comune di Noceto esisteva già alla fine dell’XI secolo. Alcuni documenti datati 1080 e 1095 sembrano ricollegarla alla donazione del prete Mangifredo che volle fornire assistenza religiosa ai viandanti e pellegrini che trovavano ospitalità nel vicino ospizio. Successivamente il complesso passò alle dipendenze del monastero benedettino di San Prospero a Reggio e nel 1168 venne ceduto all’Ordine Ospitaliero di San Giovanni che mantenne la proprietà fino al 1798.
Nel 1471 l’insediamento giovannita divenne commenda autonoma: un evento che sembra caratterizzarsi come post quem per datare la ristrutturazione quattrocentesca del plesso e la conseguente realizzazione della decorazione pittorica della zona absidale. Una lapide poi posta sopra il portale dell’edificio ricorda come fu il commendatore Alessandro Burzio, nel 1578, a far ristrutturare l’edificio collassato a causa del tempo, si provvide a ridipingere parte degli affreschi quattrocenteschi e anche ad accorciare di almeno due campate la chiesa superiore.
Nel 1864 la chiesa venne venduta a privati, all’inizio del Novecento si provvide ad effettuare un impegnativo restauro, mentre nel 1910 si costruì l’attuale canonica.
NOTIZIE STORICO-ARTISTICHE
La fama della chiesa dei SS. Simone e Giuda è certamente legata alla bellezza della sua cripta. La struttura architettonica è seminterrata con copertura a vela e a crociera. Lo spazio cultuale è scandito da pilastri in laterizio, sia tondi che quadrati, mentre alle pareti si aprono piccole finestre a strombo che assicurano una affascinante illuminazione. D'impianto tripartito questa sembra testimoniare che nella costruzione originaria anche l'edificio superiore era articolato in tre navate terminate rispettivamente da tre absidi. Le sue caratteristiche murarie inseriscono la chiesa dei santi Simone e Giuda in un gruppo di edifici che si possono sostanzialmente datare al principio del periodo romanico nel territorio di Parma: una cultura artistica diffusasi nella seconda metà dell’XI secolo. È infatti verosimile che la prima struttura dell’edificio rispondesse alle richieste del prete Mangifredo fornendo due spazi sovrapposti che servivano alle esigenze della liturgia del clero e delle funzioni dedicate ai laici.
La chiesa in cui subentrarono i Gerosolimitani si presentava come una costruzione di una certa rilevanza, articolato su due livelli, le cui prime fasi vengono testimoniate nella zona absidale dagli archetti romanici sottogronda e dalla muratura mista in laterizio e ciottoli di fiume. Una seconda fase, databile al Quattrocento, è altresì caratterizzata dal paramento murario in laterizio costruito al di sopra della muratura romanica, concluso da una cornicetta sottogronda modanata. Questa fase è stata tradizionalmente datata, sulla base dell’analisi stilistica degli affreschi della calotta absidale, entro la metà del secolo XV.
LETTURE CONSIGLIATE
R. Barilla, Noceto e la sua chiesa, Noceto 1947.
Comune di Noceto, Castelfranco Veneto 2008.
R. Gualtiero, Noceto e le sue frazioni testimonianze del passato, Parma 1978.
STORIA
La chiesa plebana di San Pietro si mostra molto particolare già per la sua posizione isolata in cima ad un colle di un centro appenninico importante come Tizzano Val Parma, da dove domina tutta la vasta area circostante. Questa pieve romanica, citata per la prima volta in un documento del 1004, è stata costruita in pietra ed è ascrivibile all'XI secolo. Presenta una pianta basilicale a tre navate, con una torre posta al centro della facciata, che ha funzione di campanile e di ingresso. Proprio per la presenza di questa massiccia torre, la pieve di Tizzano può essere considerata come un raro esempio nel romanico padano di clocher-porche, una tipologia di chiesa particolarmente diffusa in Francia.
NOTIZIE STORICO-ARTISTICHE
La chiesa ha subito radicali modifiche e numerosi rifacimenti tra l'XI e il XII secolo, se si considera che le tre absidi dell'impianto originario sono state demolite e sostituite da un coro a pianta quadrata. Inoltre il portale alla base del campanile è frutto di un intervento seicentesco e le tre cappelle laterali sono state inserite in un secondo momento sul fianco laterale. Tutte queste aggiunte sono state costruite con la stessa rustica muratura appenninica della pieve romanica in pietra naturale conferendole un aspetto uniforme. Sul fianco meridionale si trovano alcuni resti degli archetti pensili che decoravano le linee di gronda e al centro si apre un secondo portale che fungeva in passato da ingresso principale. Per quanto riguarda invece la sua struttura interna, i restauri hanno riportato alla luce, oltre alla copertura a capriate in legno, la nuda muratura che appare altrettanto rustica proprio come quella esterna. La navata centrale è scandita in cinque arcate da massicci pilastri cilindrici, i cui capitelli hanno cubo smussato. La costruzione sommaria della muratura nelle pareti, nei pilastri, nei capitelli e negli archi ha fatto pensare che doveva essere sanata dal rivestimento a intonaco forse destinato ad essere ricoperto da affreschi. É probabile che quest'ultimi, se furono già eseguiti in epoca romanica, siano stati sostituiti da altri di epoca successiva. L'ultima edizione della decorazione a fresco risale al 1485, secondo la testimonianza riportata da un'iscrizione. Le tracce superstiti di questi affreschi quattrocenteschi sono stati strappati per essere poi restaurati e trasferiti nella parrocchiale di Tizzano, dove ora sono visibili. In particolare, in due di questi quattro dipinti, oltre alla data di esecuzione, compare anche una scritta allusiva ai committenti e all'ignoto artista emiliano che li ha eseguiti.
LETTURE CONSIGLIATE
F. Barili, Tizzano Val Parma: i castelli, la chiesa plebana, figure di tizzanesi, Parma 1970.
S. Stocchi, La pieve di Tizzano, in Italia Romanica. L’Emilia-Romagna, Milano 1984.
A. Leporati, Le chiese di Tizzano a Val Parma, Tizzano Val Parma 1989.
STORIA
Situata nel Comune di Codigoro, l’abbazia di Pomposa manca di fonti storiche che documentino con precisione la sua fondazione. Probabilmente il primo cenobio era già presente nel territorio definito “insula Pomposia” tra il VI e il VII secolo, ma la prima notizia attendibile risale all’874, quando papa Giovanni VIII rivendicava la giurisdizione sul monastero contro le pretese della Chiesa di Ravenna. Nel 982 l’imperatore Ottone II la cita in un atto come oggetto di donazione compiuta dai suoi genitori al monastero di San Salvatore a Pavia. I monaci però riuscirono nel 999 a ottenere dall’imperatore la donazione all’arcivescovo di Ravenna, atto che portò al conseguimento di privilegi e concessioni papali e imperiali che permisero di raggiungere la piena autonomia del cenobio nel 1022.
La fioritura dell’abbazia nei secoli successivi non fu solo legata alle condizioni politico-istituzionali e religiose, ma venne favorita grazie al territorio nel quale sorge il cenobio: l’insula Pomposiana definita geograficamente fino al secolo XII da due rami principali del Po (Po di Volano a sud e il Gauro o Po di Goro a nord) era ubicata lungo la via Popilia, chiamata nel medioevo Romea, perché collegava l’Europa nord-orientale con Roma. Inoltre il luogo separato dal mare Adriatico dalla laguna deltizia, godeva di un clima salubre e di terreni bonificati, altamente fertili. Questo portò ad una forte aumento demografico incentivato da una fiorente attività agricola. Il territorio di proprietà dell’abbazia era amministrato economicamente e giuridicamente con conduzione diretta del monastero mediante il gastaldo giuridico (rappresentante dell’abate).
Lasciti e donazioni arricchirono Pomposa di possedimenti sparsi un po’ ovunque in Italia. L’espansione economica e quella spirituale-culturale progredirono di pari passo, raggiungendo l’apice nell’XI secolo sotto la direzione dell’abate Guido. Fu in questo periodo che il monastero venne ampliato e dotato del grande chiostro (oggi solo parzialmente esistente), di torri, e del palazzo della Ragione, assumendo l’aspetto di una cittadella fortificata.
Nel 1152 con la rotta di Ficarolo (gli argini del Po ruppero in quella località ubicata a monte di Ferrara) il territorio subì un tale sconvolgimento che provocò la scomparsa dell’insula e l’intero impaludamento dell’area. Il lento cambiamento delle condizioni geografiche fu fatale per Pomposa che vide i monaci decimati dalla malaria. Altri fattori che facilitarono la decadenza furono certamente le tensioni politiche presenti nell’Italia settentrionale e le mire espansionistiche degli Este esercitavano da Ferrara.
Nella prima metà del Quattrocento Pomposa venne trasformata in commenda, mentre nel 1553 dipese dal convento di San Benedetto di Ferrara, dove vennero trasportati beni mobili, arredi sacri e la preziosa biblioteca. Il monastero venne soppresso dal papa Innocenzo X nel 1663, ma gli ultimi monaci lasciarono definitivamente Pomposa nel 1671. L’abbazia visse così secoli di totale abbandono, fatta eccezione per la chiesa eletta parrocchia dal 1663. In seguito alle soppressioni napoleoniche, le strutture del convento vennero utilizzate come magazzini agricoli e luoghi di servizio, fino al 1920 – 1930 quando l’intero complesso fu oggetto di restauro che le restituì l’attuale configurazione all’abbazia.
NOTIZIE STORICO-ARTISTICHE
La chiesa di Santa Maria di Pomposa è caratterizzata da una pianta basilicale a tre navate. L’abside centrale è di forma semidecagona, tipologia caratteristica dell’area ravennate, attestate per un lungo lasso di tempo (per esempio la ritroviamo nella chiesa più antica di San Apollinare in Classe). La chiesa abbaziale fu costruita probabilmente tra il 751 e l’874: parte del tempio è infatti costituito da materiale architettonico di spoglio proveniente da Ravenna, che nel 751 cadde rovinosamente sotto il dominio longobardo per mano di re Liutprando. In questa fase la chiesa, che andava a sostituirsi al primitivo sacello, attorno al quale si era creata due secoli prima la comunità di monaci benedettini, coincideva solo in parte con la pianta attuale; terminava infatti all’altezza dell’attuale settima campata. La struttura della chiesa subì diverse modificazioni, come hanno chiarito gli scavi archeologici. Tra il IX e il X secolo, nel lato sinistro venne costruito un nartece, dotato di bifore a doppia ghiera. Inoltre sempre in questo periodo, probabilmente, la chiesa terminava con tre absidi, di cui quella centrale era caratterizzata da proporzioni maggiori. Da un’iscrizione inserita nel pavimento della chiesa si ricava che il 7 maggio del 1026 (o del 1027) la chiesa venne ridedicata. Questo avvenimento coincide con l’abbaziato di San Guido (1008. – 1046) e quindi con un periodo di importanti trasformazioni e ampliamenti in tutto il monastero. Tra il 1000 e il 1026 venne rifatta la cripta in forma di oratorio,venne inserito all’interno della chiesa il nartece e furono quindi aggiunte due nuove campate. Le finestre del nartece vennero chiuse e fu aggiunto un portale nell’arcata centrale d’accesso; di conseguenza l’ingresso si rimpicciolì notevolmente. Sempre in questo periodo si edificarono l’attuale atrio e il campanile. Si pensa inoltre che questi interventi fossero commissionati dall’arcivescovo di Ravenna, Geberardo (1028-1044). Infatti nell’epigrafe della sua tomba, situata nella sala capitolare del monastero, vi è scritto “PONTIFICIS MAXIMI CORPVS IACET HIC GEBERARDI// PER QVEM SANCTA DOMVS CREVIT ET ISTE LOCVS”, dove per “sancta domus” e per “iste locus” si intendono i lavori di ampliamento sia della chiesa sia del monastero. L’esecutore dell’atrio fu “Mazulo magister”, nome tramandatosi grazie all’epigrafe murata a destra della facciata. L’atrio presenta tre ampie arcate sorrette da semipilastri ottagoni. Si viene quindi a creare una zona d’ombra che fa risaltare agli occhi del fruitore la decorazione di superficie, costituita da mattoni bicolori, sculture, fasce in cotto e bacini ceramici. Negli elementi decorativi si avverte un forte senso di orizzontalismo dato dalle fasce nastriformi in cotto, dalla disposizione dei rilievi di pietra e dei bacini ceramici. Questi ultimi elementi sono estranei alla cultura locale, ma ben si accordano al complesso decorativo. Particolare è infatti la loro inserzione, soprattutto per il loro effetto chiaroscurale nella contrapposizione con gli altorilievi chiari raffiguranti il leone, l’aquila e il pavone. In seguito alla scoperta di residui di vernice negli incavi delle fasce decorative, gli studiosi ritengono che tali elementi decorativi fossero in origine interamente smaltati, ovvero ricoperti di vernice poco lucida in pasta vitrea applicata probabilmente in seconda cottura con tonalità svariate. Nell’impianto decorativo Mazulone utilizzò come punto di riferimento l’arcata centrale creando una composizione fortemente equilibrata. Il repertorio attinge sia dalla cultura orientale, come i bacini ceramici, le transenne in stucco i fregi a tralcio abitato; sia dalla cultura locale come i mattoni triangolari, bicolori, rossi ed ocra. Questi ultimi però vengono utilizzati in composizioni inconsuete che danno vita a motivi decorativi riproposti soprattutto nel romanico bolognese. Grazie ad una lapide posta sul basamento si è tramandato anche il nome del responsabile del campanile, il maestro Deusdedit e l’anno di fondazione, 1063. La torre campanaria presenta l’uso di materiale di reimpiego: come il frammento di ciborio della prima metà del IX secolo inserito sotto l’epigrafe, oppure come il frammento di architrave murato verticalmente. Inoltre gli elementi che costituiscono le finestre sono frammenti tardo antichi, paleocristiani e alto medievali. Nel campanile vennero anche inseriti le formelle in cotto e i bacini ceramici, ma non più nella maniera equilibrata dell’atrio, bensì senza un ordine logico. La torre campanaria poi si conclude con una guglia di età gotica.
All’interno della chiesa sono visibili più cicli decorativi che presero avvio nell’VIII secolo per concludersi nel XIV con gli affreschi di Vitale e della sua scuola con la realizzazione delle storie di Sant’Eustachio nell’abside, dell’Apocalisse lungo la navata centrale e del Giudizio Universale nella parete di controfacciata. Ancora visibili, ma pressoché allo stato di lacerti pittorici, sono i profeti dipinti sulla parete dell’antico nartece, realizzati intorno ai primi decenni dell’XI secolo e le storie di San Pietro lungo la navatella meridionale. La lettura di questi ultimi parte dalla zona absidale e presenta una sequenza degli episodi più salienti della vita del santo: L’apparizione di Gesù sul lago di Tiberiade; San Pietro consacra i primi diaconi; La predica di San Pietro ai neofiti; La resurrezione di Tàbita; La caduta di Simon Mago (?); San Pietro risana lo storpio . Le scene si caratterizzano per grande semplicità linguistica dettate probabilmente dalla funzione didascalica della rappresentazione.
Di grandissimo interesse è il pavimento, il cui disegno è diviso in quattro settori distinti: i primi tre, a partire dalla zona absidale, appartenevano al coro dei monaci, realizzato durante i lavori voluti da San Guido. Il primo tratto in mosaico mostra un disegno geometrico a cerchi intersecati che formano elementi fusiformi con foglie. La vicinanza di questa tipologia decorativa con mosaici provenienti da basiliche ravennati del VI (per esempio Sant’Apollinare in Classe), fa pensare all’uso di materiale di recupero.
La seconda parte del pavimento utilizza una tecnica mista, mosaico e settile: nel campo quadrato spicca un nastro continuo che disegna quattro cerchi angolari e accompagna il gioco di quadrati, triangoli, rombi in minuti pezzi di marmi colorati, disposti in cerchi concentrici. Da un grande tondo centrale partono i bracci di una croce, dove è incisa la data della riconsacrazione della chiesa (7 maggio 1026).
Nel convento si possono visitare l’aula capitolare con affreschi della scuola riminese e il Museo Pomposiano, dove sono raccolti i numerosi oggetti d’arte depositati durante la “fase di abbandono” in diversi luoghi del complesso. La collezione comprende materiali eterogenei che partono dal VI secolo fino al XIX, provenienti da scavi, restauri o ritrovamenti fortuiti, riconducibili alla storia del complesso abbaziale. In particolare si segnalano i plutei pertinenti all’arredo interno della chiesa dell’XI secolo, nei quali sono raffigurati animali fantastici racchiusi entro tondi a nastro intrecciati tra loro.
LETTURE CONSIGLIATE
M. Salmi, L’abbazia di Pomposa, Milano 1936 (1966)
Pomposa. Storia, arte, architettura, a cura di A. Samaritani e C. Di Francesco, Ferrara 1999
C. Di Francesco, L’Abbazia e il Museo di Pomposa, Roma 200
S. Pasi. La pittura monumentale in Romagna e nel ferrarese fra IX e XIII secolo, Bologna 2001
STORIA
Bazzano è un piccolo borgo appenninico del comune di Neviano degli Arduini, all'interno del quale si trova la chiesa parrocchiale dedicata a Sant'Ambrogio. Questa pieve, che ha delle origini molto antiche, fu fondata intorno al VI secolo, menzionata per la prima volta in un documento del 920 e infine citata con il titolo di pieve intorno al 1004, quando è stata avviata la sua ricostruzione in forme romaniche. La chiesa ha ricoperto un ruolo di notevole rilievo soprattutto nel 1230 quando ha assunto la completa giurisdizione su ben sette cappelle. Probabilmente già nel corso del XII secolo possedeva la struttura a tre navate con tradizionale orientamento est-ovest, variato poi nella forma attuale in epoca moderna nel corso delle ristrutturazioni del XVI e XVII sec. É stato osservato che, nonostante le numerose e radicali trasformazioni avviate a partire dal Cinquecento, l'impianto romanico originario risalente all'XI secolo è ancora riconoscibile sotto le aggiunte rinascimentali. Ma poiché la chiesa non fu coinvolta nelle campagne di restauro che si tenevano solitamente tra la fine del secolo scorso e gli inizi di quello attuale, l'architettura romanica necessita semplicemente di una lettura più approfondita. Inoltre un significativo intervento eseguito tra il 2001 e 2003 ha contribuito alla messa in sicurezza della pieve e al restauro della chiesa con la risoluzione dei gravi problemi statici che ne minavano la solidità strutturale.
NOTIZIE STORICO-ARTISTICHE
Alcuni recenti scavi hanno evidenziato una caratteristica molto interessante che riguarda la posizione delle absidi, le quali prima sorgevano ad est dove ora si trova la facciata; invece nella seconda metà del XVII secolo viene invertito l'orientamento della chiesa con la facciata verso il paese e l'abside verso la valle. Inoltre il principale elemento che testimonia l'antichità della struttura di questa pieve è rappresentato da un prezioso fonte battesimale in pietra, di forma ottagonale all'esterno e tronco-conica all’interno, che può essere annoverata tra i più preziosi reperti di età romanica del parmense. Questa vasca, poggiata su un piedistallo, è costituita da sculture primitive di sapore bizantineggiante e si fa risalire al VII e VIII secolo. Le otto facce sono separate da colonne congiunte da una fascia a racemi di vimini che si inarca tra le colonne. Su ogni faccia della vasca, collocata nella prima cappella laterale di sinistra, sono scolpite a rilievo numerose figure, che sembrano di stare all'interno di una loggia o sotto un portico. Esse rappresentano il tema del Battesimo, san Matteo, il leone che incarna san Marco, l'episodio dell'Annunciazione e le figure della Vergine e del Cristo. La figura chiave è l’immagine di san Giovanni Battista a piedi nudi che porta la mano destra al petto e alza il braccio sinistro in gesto di accettazione. Infine le colonnine sorreggono capitelli decorati con foglie d'acanto, sui quali si innescano archi ribassati e ornati a motivi vegetali, foglie stilizzate e intrecci viminei, che richiamano elementi di tradizione lombarda.
LETTURE CONSIGLIATE
F. Barilli, La Pieve di Bazzano e la sua gente, Parma 1984.
S. Stocchi, La pieve di Bazzano, in Italia Romanica. L’Emilia-Romagna, Milano 1984.
Emilia Romagna. Guida d'Italia del Touring Club Italiano, VI edizione, Milano 1991.
STORIA
Santo Stefano vanta una storia millenaria poiché già nell’XI secolo esisteva una cappella dedicata al protomartire che dava il nome a un piccolo borgo, posto fuori la città vescovile, dalla quale era diviso dal torrente Crostolo. Dalle carte dell’archivio di San Prospero emerge che nel 1019 l’imperatore Enrico II donò al vescovo Teuzone la cappella e gli annessi fabbricati con un ospizio per i pellegrini. Nel 1047, il vescovo Sigifredo II decise di affidare Santo Stefano e le sue pertinenza ai Canonici di San Prospero in Castello. La situazione mutò radicalmente il 23 febbraio 1130, quando, il Prevosto Erardo, a nome del Capitolo di San Prospero, affidò la chiesa, l’ospedale e le sue proprietà ad Alberto abate dell’Abbazia di Frassinoro. I benedettini divennero così gli usufruttuari di Santo Stefano con l’obbligo di versare un canone annuo di otto libbre d’olio. L’insediamento passò invece all’Ordine templare nel gennaio del 1161, quando Achille Taccoli Arcidiacono di Reggio e Prevosto della insigne basilica di San Prospero affidò Santo Stefano ai frati cavalieri. La dimensione della chiesa e degli edifici che i Templari ereditarono dai benedettini furono certamente rilevanti e allo stato degli studi non si conoscono interventi successivi in epoca romanica.
NOTIZIE STORICO-ARTISTICHE
Verosimilmente possiamo ipotizzare una prima campagna di lavori in una data posteriore, ma non troppo distante, dalla metà del secolo XI: la cappella venne così trasformata in un piccolo oratorio per volontà dei canonici nuovi responsabili del plesso. A quest’intervento, bene esemplato da una peculiare tipologia laterizia, appartengono probabilmente “i muri delle navate laterali, i pilastri ottagonali e le colonne della seconda campata”. Una preziosa traccia dell’edificio dell’XI secolo è a nostro avviso ravvisabile nel capitello fitomorfo di pietra calcarea, conservato nella studio del parroco. I caratteri stilistici con cui viene tradotta la decorazione vegetale trovano numerosi riscontri nella scultura regionale; in tal senso un interessante confronto può essere quello con i capitelli della cripta bolognese della chiesa dei Santi Naborre e Felice. Non possediamo documenti specifici, ma è assai probabile che l’ampliamento dell’edificio avvenne in una data posteriore al 1130, quale conseguenza diretta del possesso di Santo Stefano da parte dell’Abbazia di Frassinoro. La sostanziale ricostruzione della chiesa secondo le dinamiche del romanico padano è testimoniata ancora oggi dalle colonne e dai capitelli in cotto del transetto che anche da un punto di vista stilistico, nonostante il lessico arcaico, ancora legato ai modi matildici, non mancano di presentare diversi confronti in ambito emiliano. Nel solaio del portico è ancora visibile parte della muratura realizzata nel XII secolo: sul lato settentrionale dell’edificio, corrispondente alla navata centrale sono presenti alcune monofore strombate murate, sovrastate da una decorazione ad archetti in cotto con terminazioni simboliche zoomorfe.
LETTURE CONSIGLIATE
M. Iotti, La chiesa di Santo Stefano in Reggio, Reggio Emilia 1998.
M. Mussini, Il romanico a Reggio e nel reggiano, Reggio Emilia 1972.
M. Pirondini, Reggio Emilia guida storico artistica, Reggio Emilia 1982.
STORIA
L'antica pieve di Gaione, una piccola frazione di Parma, è dedicata ai Santi Ippolito e Cassiano ed ha attraversato un lungo e complesso percorso storico. Vanta delle origini molte antiche in quanto la sua fondazione risale addirittura al periodo che va dal VII all'VIII secolo. Infatti sui resti di una struttura romana è sorto, nell’alto medioevo, proprio questo primitivo luogo di culto di cui è stato rinvenuto il piccolo altare, in mattoni romani riutilizzati. La pieve viene successivamente ricostruita in forme romaniche intorno al XII secolo e precisamente al 1111 risale la prima attestazione della sua esistenza. Ma questo monumento, a partire dal Seicento, è stato sottoposto ad una serie di rifacimenti che hanno in parte alterato quell'aspetto originariamente romanico. Infatti il campanile, il presbiterio e il fianco meridionale risalgono proprio a quest'ultima fase di restauri.
NOTIZIE STORICO-ARTISTICHE
La pieve di Gaione ha avuto il merito di conservare una facciata molto semplice, austera e disadorna, visibile nella sua muratura rustica in pietra. A differenza di quello meridionale, il fianco settentrionale mostra parte della muratura originaria più antica in conci squadrati di forma cubica. Poi passando dalla facciata all'interno, la chiesa è costituita da una pianta basilicale a tre navate e tre absidi semicircolari rivolte verso est. Alcuni interventi di restauro novecenteschi hanno ripristinato la muratura a vista a corsi alternati di mattone e pietra, che sono molto evidenti soprattutto in quei pilastri di forma cilindrica che reggono le cinque arcate della navata. Anche i capitelli, a cubo smussato, sono stati costruiti con gli stessi materiali. Inoltre gli archi sono privi di risega e la copertura è a capriate in legno. Purtroppo le absidi originarie sono state demolite in seguito alla ricostruzione settecentesca del presbiterio. Inoltre il pavimento è stato abbassato e riportato al livello originale, con l'intenzione di rimettere in evidenza le basi dei pilastri. Infine nel corso del XIX secolo viene costruita l’unica cappella laterale e ampliata la canonica, mentre gli scavi archeologici condotti a partire dal 1952 hanno contribuito alla ricostruzione dell’abside est e al ritrovamento, nella prima campata della navatella posizionata a nord della pieve, della base rotonda del battistero originario.
LETTURE CONSIGLIATE
E. Dall'Olio, Itinerari turistici della provincia di Parma, Parma 1975.
S. Stocchi, La pieve di Gaione, in Italia Romanica. L’Emilia-Romagna, Milano 1984.
M. Catarsi, La pieve dei santi Ippolito e Cassiano di Gaione: archeologia e storia di un territorio, Parma 2007.
STORIA
La pieve di Contignaco, dedicata a San Giovanni Battista, si erge sulla cima di un poggio tra le colline di Salsomaggiore Terme, in provincia di Parma, sul lato opposto a quello che ospita il castello della famiglia Pallavicino. Questo monumento romanico risale al XII secolo, in quanto viene citato per la prima volta in un documento del 1179. Successivamente la pieve viene menzionata anche in una bolla del 1196, per poi essere sottoposta nel 1391 ad un restauro da parte di Iohannes de Saselinis da Parma, come risulta documentato dall'epigrafe murata sulla facciata. Il monumento costituiva nel medioevo un'unità ecclesiastica molto importante perché custodiva il fonte battesimale ed aveva giurisdizione su numerose altre chiese, quasi come fosse una piccola diocesi, dove il sacerdote titolare portava il titolo di pievano o arciprete. La chiesa viene profondamente ristrutturata tra il 1781 ed il 1789 per adeguarla ai canoni barocchi, con la costruzione delle volte sulle navate e la stesura di intonaci e cornici. Ma a partire dal 1954 sono stati avviati alcuni restauri significativi che hanno avuto l'abilità di eliminare gli intonaci e gli interventi barocchi precedenti. In questo modo la pieve è riuscita a recuperare quell'austerità e sobrietà tipica dello stile romanico, facendo risaltare la muratura originaria in pietra a blocchi squadrati di accurata fattura, sia all'esterno sia all'interno della struttura.
NOTIZIE STORICO-ARTISTICHE
La facciata della pieve presenta un profilo a doppio spiovente ed un portale, al di sopra del quale si conserva all'interno di una nicchia la “Madonna col Bambino”, una scultura forse trecentesca. Sul fianco meridionale si alza il campanile quadrato e a metà della facciata si apre una piccola bifora. Ciò che manca è la conca absidale che forse fu demolita e sostituita nel passato. Passando alla sua struttura interna, la pieve possiede una pianta basilicale a tre navate, divise in tre campate da archi senza risega su pilastri quadrati senza capitello. L'unico a fare eccezione è il pilastro a sinistra, cilindrico e provvisto di capitello a cubo smussato. Inoltre in fondo alla navata minore di destra, alla base del campanile, si apre una cappella che forse aveva funzione di battistero ed era contraddistinta da volta e pareti decorate da affreschi tardo-gotici, risalenti al XV secolo. Ora questi frammenti sono stati però staccati per preservarli dall'umidità e trasferiti sulla parete di fondo del presbiterio e sulle pareti delle navate, dove sono infatti visibili degli affreschi che raffigurano Cristo in mandorla, San Giovanni Battista (attribuito a Luigi Vigotti) e la Crocifissione, insieme a numerose figure di angeli e santi. Degno di menzione è l'affresco votivo raffigurante Santa Lucia che è stato riportato alla luce sul primo pilastro di destra, con il nome del committente e la data del 1517. Seppure questo gruppo di affreschi sia molto posteriore alle origini della chiesa, rappresenta in ogni caso un motivo di massimo interesse, in quanto si tratta di un programma pittorico del tutto organico.
LETTURE CONSIGLIATE
E. Dall'Olio, Itinerari turistici della provincia di Parma, Parma 1975.
S. Stocchi, San Giovanni in Contignaco presso Salsomaggiore. L’Emilia-Romagna, Milano 1984.
Emilia Romagna. Guida d'Italia del Touring Club Italiano, VI edizione, Milano 1991.
STORIA
La chiesa di Santa Maria Assunta, collocata all'inizio dell'abitato di Castione Marchesi, è quanto si è conservato di un antico complesso abbaziale benedettino, che venne fondato nel 1033 dal marchese Adalberto, capostipite dei Pallavicino e dalla moglie Adelaide. Sebbene a questa data risalgano le numerose donazioni terriere effettuate dallo stesso marchese all'abbazia, tuttavia bisogna ascrivere solo alla metà del secolo successivo la definitiva costruzione del complesso. L'abbazia rimase inoltre fino al XV secolo nelle mani dei benedettini, per poi essere affidata ai monaci olivetani che la reggeranno fino al suo trasferimento alla diocesi di Parma avvenuto nel 1764. Nell'Ottocento la chiesa, intorno alla quale si può facilmente identificare il perimetro delle antiche mura, cominciò ad assumere tutte le funzioni di parrocchiale ordinari. Dopo continui rimaneggiamenti, le significative campagne di restauro iniziate nel 1954 e terminate nel 1958 hanno ripristinato le sue linee originariamente romaniche soprattutto per quanto concerne la struttura interna.
NOTIZIE STORICO-ARTISTICHE
A differenza dell'interno, la facciata esterna a doppio spiovente mostra i segni evidenti di un romanico di restauro di dubbia autenticità. L'abbazia è costituita da una struttura basilicale a tre navate, retta da pilastri cruciformi a sistema alternato, con cinque campate nelle navatelle e due nella navata centrale, coperte da volte a crociera. Questa struttura sembra proprio ripetere i canoni architettonici dell'ordine cistercense, pur non facendone parte. Infatti la campagna di restauro novecentesco ha messo in evidenza le affinità di questo monumento con l'architettura dell'abbazia di Chiaravalle della Colomba e di Fontevivo, facendo risaltare la dicromia mattone - intonaco. In ogni caso non risulta del tutto semplice distinguere ciò che è autenticamente romanico da ciò che è frutto di rifacimento, come capita per gli splendidi capitelli dei pilastri che sono scolpiti alcuni con forme geometriche e altri con figure zoomorfe. Inoltre l'elemento più interessante di questa abbazia è caratterizzato dai resti di un mosaico pavimentale, che sono stati scoperti durante i rifacimenti novecenteschi, quando si decise di riportare il pavimento al livello originale. Del mosaico originario sono stati ritrovati pochi frammenti, formati da tessere bianche, nere e rosse, ora per lo più staccati e conservati sulla parete nel corridoio della sacrestia. Tali resti sono molto significativi in quanto testimoniano l'esistenza di un'opera musiva risalente al XII secolo, contemporanea a quelle di San Savino a Piacenza e di San Colombano a Bobbio. In questo mosaico si riesce a individuare un motivo decorativo a racemi, oltre a due mutile figurazioni antropomorfe allegoriche, una delle quali si può interpretare come l'allegoria del mese di aprile. Questa supposizione ci induce a pensare che anche qui fosse raffigurato il famoso ciclo dei mesi. Ma recentemente queste figure sono state interpretate come allegoria delle arti liberali; in particolare sono visibili una donna che regge una sfera come raffigurazione dell’Astronomia, il frammento con figura maschile che regge uno scettro come il Re Davide e il busto proteso in atto di soffiare come la raffigurazione di un Vento.
LETTURE CONSIGLIATE
D. Soresina, Enciclopedia diocesana Fidentina,Vol. III, Le parrocchie, Fidenza 1979.
S. Stocchi, L'abbazia di Castione Marchesi, L’Emilia-Romagna, Milano 1984.
R. Farioli Campanati, I mosaici pavimentali di Castione dei Marchesi: nel contesto della cultura ottoniana lombarda, Ravenna 1988.
STORIA
Al centro della piazza principale di Sarsina troneggia la cattedrale dedicata a San Vicinio, patrono e primo vescovo della città, che fu definita come uno dei monumenti più pregevoli ed interessanti di stile romanico in Emilia Romagna. La chiesa, eretta probabilmente in epoca bizantina, venne ricostruita in modo radicale intorno al Mille in forme romaniche. A partire dal 1656, un vescovo di nome Cesar Righini decise di demolire la sopraelevazione del presbiterio e la cripta sottostante. Le numerose trasformazioni che si sono susseguite nel corso dei secoli e i rifacimenti barocchi sono stati eliminati da un'efficace campagna di restauro durata dal 1958 al 1966, programmata e compiuta dal vescovo Carlo Bandini, che riuscì a restituire alla cattedrale le sue linee originarie.
NOTIZIE STORICO-ARTISTICHE
Questo imponente edificio romanico presenta una severa costruzione in laterizio, dove il massiccio campanile fa corpo unico con la facciata a doppio spiovente. Nella parte superiore la facciata si mostra sobria e disadorna, in caldo mattone, ma allo stesso tempo particolarmente elegante. Il coronamento sottogronda è costituito da una piccola cornice a denti di sega. L'unica abside, divisa da due semicolonne, è ben conservata e presenta la stessa sobrietà e lo stesso coronamento che caratterizza la facciata. Invece nella parte inferiore della facciata risaltano cinque arcate cieche, separate da quattro semi-colonne sormontate da capitelli tardo-bizantini. La facciata è inoltre contraddistinta dagli addentellati di un portico che è stato forse demolito o mai costruito. Al di sopra l'ingresso, nella lunetta, vi è anche un mosaico che raffigura il santo titolare con la mitria da vescovo e con quella tipica catena considerata miracolosa dai suo devoti. Inoltre una grande quantità di reimpieghi lapidei romani e di pezzi di origine protocristiana sono collocati lungo i fianchi della cattedrale. Sul fianco sinistro è infatti visibile un sarcofago marmoreo che viene identificato con l'arca di San Vicinio e sul fianco destro è posizionata una raccolta ricca di epigrafi, cippi e altri frammenti scultorei. La struttura interna austera e solenne è provvista di una pianta tipica della basilica latina, a tre navate, monoabsidata e scandita in dieci campate da coppie di pilastri in laterizio e di archi in pietra. La copertura è in legno, a capriate. Degno di menzione è soprattutto il ricco ed interessante arredo scultoreo presente all'interno della cattedrale, che oltre ai frammenti romani comprende in particolare tre pezzi di notevole rilievo: un ambone marmoreo del XII secolo, scolpito con i simboli degli Evangelisti (l’angelo di S. Matteo, il leone di S. Marco, l’aquila di S. Giovanni e il vitello di S. Luca); un paliotto d'altare del X secolo, proveniente dall'abbazia di S. Silvestro in Summano a Montalto, che raffigura Cristo in trono in mezzo a due arcangeli; e un fonte battesimale di origine tardo-romano, con quattro teste stilizzate di capro negli angoli. Infine sempre all'interno della cattedrale, in alcuni punti della chiesa, sono visibili delle tracce dell'originaria pavimentazione romana in cotto e dell'antica cripta demolita.
LETTURE CONSIGLIATE
L. Turci, La cattedrale di Sarsina, Bologna 1976.
P. Pelliccioni, V. Tonelli, Sarsina turistica, Forlì 1977.
S. Stocchi, La cattedrale di Sarsina, L’Emilia-Romagna, Milano 1984.
STORIA
Vicino al borgo di Coscogno (di origine romana) sorge l’antica pieve romanica intitolata a Sant’Apollinare. Il primo documento che attesta la presenza della chiesa risale al 996, quando Sant’Apollinare apparteneva al castello di Chiagnano, ma la funzione di pieve viene segnalata per la prima volta nel 1035. L’intitolazione a un martire bizantino di provenienza ravennate ha fatto però ritenere, ad alcuni studiosi, che l’edificio venne costruito prima della caduta, in Appennino, della dominazione bizantina (VII – VIII).
La pieve, collocata lungo la strada che conduceva in Toscana, ebbe grande importanza per tutto il Medioevo, la sua importanza è ulteriormente documentata nel 1104, quando la contessa Matilde di Canossa rogò un atto a Coscogno, alla presenza del cardinale Bernardo. Alla fine del XIII secolo dipendevano dalla pieve diverse cappelle: San Dalmazio, Festà, Montebonello, Benedello, Chiagnano.
La chiesa, costruita su un terreno instabile, dovette più volte essere ricostruita.
NOTIZIE STORICO-ARTISTICHE
L’aspetto attuale della chiesa risale alla ristrutturazione del 1648, data scolpita su una targa murata nella parte alta dell’edificio, quando la facciata a capanna, tipica del gusto romanico, assunse l’odierno assetto a salienti e furono costruiti il coro e le cappelle laterali.
Di stile romanico rimane in facciata il portale (XIII secolo), sovrastato da una rara lunetta scolpita (XI – XII secolo) e abbellito da due esili colonne con capitello e fogliami che sorreggono una cornice decorata a gigli e un architrave al cui interno è scolpita a rilievo una rosetta. La lunetta in pietra scolpita, di epoca matildica, raffigura la lotta di due caprioli, posti l’uno di fronte all’altro con al centro una foglia di palma stilizzata. Il bordo semicircolare era decorato da una fregio a treccia, del quale rimangono solo piccoli tratti alle estremità. Il motivo della lunetta proviene dalla cultura borgognona giunta in questi luoghi grazie ai pellegrini, poiché Coscogno era crocevia della strada che portava verso Roma.
LETTURE CONSIGLIATE
Passaggi e paesaggi. Itinerari nell’Appennino modenese, Modena 2004
D.A. Rabetti, Memorie storiche della pieve e della villa di Coscogno, diocesi di Modena, Modena 1938
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