Pieve di San Giorgio Argenta
La graziosa Pieve di San Giorgio è situata a circa un chilometro dal centro abitato di Argenta, sulla Strada Cardinala per Campotto, alla destra del fiume Reno. La chiesa venne fondata nel 569 dall’arcivescovo di Ravenna Agnello e rappresenta il sito religioso più antico della provincia ferrarese. Il bellissimo altare ravennate, ornato con agnelli recanti croci e due colonnette d’iconostasi, che si trova all’interno dell’edificio risale a questa prima fase, così come i frammenti di affreschi e di pavimento musivo ritrovati nell’abside e oggi esposti presso il Museo Civico di Argenta. Sotto le fondamenta sono stati inoltre rintracciati i resti di un tempio più antico, forse destinato al culto ariano, come testimonierebbe il ritrovamento di un preziosa fibbia bronzea di fattura ostrogota, anch’essa conservata nel museo di Argenta.
Nel corso dei secoli l’edificio subì numerose manomissioni, anche a causa delle varie ricostruzioni rese necessarie dall’instabile terreno alluvionale su cui fu eretto. A causa dei depositi fluviali il piano attuale della Pieve risulta infatti circa tre metri al di sopra rispetto a quello originale. Nel XII secolo la chiesa fu ampliata con due navate laterali, terminate da un’abside pentagonale. Sulle facce esterne dei muri perimetrali rimangono le tracce degli archi a lesena che ripartivano le navate, rimosse nel corso del XVI secolo. Degli arricchimenti del XII secolo, forse voluti dall’arcivescovo Gualtiero, rimane comunque traccia nei lacerti di affresco visibili all’interno e, soprattutto, nell’elegante portale romanico in marmo, che sull’architrave riporta la data 1122 e il nome del suo artefice, Giovanni da Modigliana. Sempre sull’architrave è scolpita una coppia di Grifoni, affiancati ai lati da due piccole figure nude, forse raffiguranti Adamo ed Eva. Anche i capitelli che incorniciano l’architrave sono istoriati con figure grottesche. Da notare le formelle degli stipiti, in cui, nonostante il cattivo stato di conservazione, è possibile riconoscere, anche grazie alle scritte riportate alla base di ciascuna, un’interessante raffigurazione dei Mesi. La lunetta è invece decorata con il Martirio di San Giorgio, identificato dall’iscrizione SANCTUS GEORGIUS, inserita nella ruota della tortura. A Partire dal XIII secolo, il sito, isolato e posto in una zona fortemente alluvionale, fu progressivamente abbandonato, come dimostra il trasferimento del fonte battesimale nella chiesa di San Nicolò, avvenuto tra il 1252 e il 1262. Oggi la chiesa si trova ai limiti della riserva naturale delle Valli di Campotto, parte del Parco regionale del Delta del Po. La visita alla Pieve può dunque rappresentare l’occasione per esplorare anche la zona circostante, di alto interesse naturalistico e dotata di aree attrezzate, percorsi pedonali e piste ciclabili.
STORIA
L’antica Abbazia fu fondata nel 752 dall’abate benedettino Anselmo, già duca longobardo del Friuli. Anselmo, con l’aiuto della popolazione locale, decise di edificare la chiesa e il monastero dopo aver ricevuto in dono da re Astolfo, suo cognato, il territorio di Nonantola. nel 756, il complesso appena edificato e consacrato dal vescovo di Reggio Emilia e del metropolita di Ravenna, accolse le spoglie di papa S. Silvestro, a cui appunto spetta, insieme agli Apostoli Pietro e Paolo, l’intitolazione della chiesa. Grazie al favore dei sovrani longobardi, dei successivi dominatori franchi e alla lungimirante amministrazione dei vari abati che si successero alla reggenza, l’Abbazia di Nonantola acquisì un indiscusso prestigio politico oltre che religioso. Lo dimostra il passaggio di numerosi personaggi illustri: nell'837 il cenobio ospitò l'imperatore Lotario, nell'883 l'imperatore Carlo il Grosso vi incontrò papa Marino e nel 1077 vi soggiornò, dopo il celebre episodio di Canossa, papa Gregorio VII. A dispetto della sua importanza, il sito subì nei secoli numerose devastazioni, tra cui la terribile incursione degli Ungari del 889, che ridusse in completa rovina sia la chiesa che il monastero. Ad ogni distruzione seguì comunque una solerte opera di riedificazione, e così avvenne anche in seguito al terremoto nel 1117 che causò danni talmente ingenti da costringere all’ennesima ricostruzione. I lavori ebbero inizio nel 1121 e conferirono al complesso abbaziale l’aspetto romanico che, fatte salve le non trascurabili alterazioni subite nei secoli successivi, è possibile ammirare ancora oggi.
ESTERNO DELLA CHIESA
Le fattezze esterne della chiesa, frutto del rifacimento seguito al terremoto del 1117, ricalcano a grandi linee quelle della cattedrale della vicina città di Modena, il cui cantiere era stato avviato nel 1099. La terminazione a capanna della facciata è affiancata da due salienti che segnalano la minore altezza delle navate laterali rispetto a quella centrale. La partizione interna dell’edificio è rispecchiata in facciata anche dalle due grandi semicolonne che individuano tre sezioni distinte, ognuna delle quali ritmata dalla presenza di lesene e archetti pensili. Nel segmento mediano compaiono tre grandi arcate cieche, di cui quella centrale incornicia le uniche aperture della facciata: in alto, una bifora, in basso, il portale scolpito. Da notare come la pietra bianca che connota questi ultimi elementi contrasti con il laterizio rosso del paramento murario. Il portale è attribuito alle stesse maestranze wiligelmiche che realizzarono i primi portali del Duomo di Modena, dei quali riprende in effetti la struttura sostanziale: un protiro retto da due colonne con capitelli fogliati e poggianti su leoni stilofori contiene il portale istoriato. Nella faccia frontale degli stipiti sono inserite due sequenze di formelle, entrambe rette da Telamoni, che narrano, a destra, Le storie dell’infanzia di Cristo, a sinistra, La fondazione dell’Abbazia di Nonantola. La parte interna è invece decorata con un tralcio vegetale abitato da disparate figure reali e fantastiche, secondo le più consuete convenzioni della scultura romanica padana. Sull’architrave, non decorata, è riportata l’iscrizione relativa al rifacimento dell’edificio avvenuto dopo il terremoto del 1117. Nella lunetta è invece scolpito a rilievo il Cristo Giudice tra due Angeli e i simboli degli Evangelisti, attorniati da una ghiera decorata a racemi e figure animali. Sul fianco meridionale è addossata una loggia a due piani risalente al XV secolo: gli archi del pian terreno sono sostituiti, nel piano superiore, da colonnine in cotto architravate. Si tratta dell’unica parte superstite dell’antico chiostro. Percorrendo il portico verso est si giunge alla zona absidale. L’abside maggiore è percorsa da cinque arcate cieche di ampiezza decrescente, suddivise da semicolonne. Al centro compare una bifora, speculare a quella che si vede in facciata, con ai lati due grandi monofore strombate. Sopra e sotto gli archi corrono, come sulle altre facce esterne dell’edificio, due sequenze di archetti pensili. Le absidi laterali, rientrate e di minore altezza, sono invece caratterizzate dalla presenza entro ogni arcata di fregi a beccatelli, elementi tipici degli edifici fortificati.
A destra della facciata della Basilica si trova il Palazzo Abbaziale. L’edificio fu totalmente ristrutturato nel corso del XVIII secolo, quando fu adibito a Seminario, ma conserva comunque alcuni elementi più antichi, come il bel portale gotico. Il palazzo è oggi sede dell'Archivio e della Biblioteca Abbaziali, in cui sono conservate le preziose testimonianze della millenaria vitalità culturale, religiosa e politica del cenobio; all’interno dello stesso edificio è allestito anche l’interessante Museo Benedettino Nonantolano e Diocesano di Arte Sacra, che ospita importanti opere d’arte provenienti dalla stessa Abbazia.
Terminata la visita del museo si prosegue a sinistra su Via Marconi. Giunti al numero civico 11, si accede nel giardino del Palazzo Comunale in cui si trova la Sala degli affreschi, decorata con un raro ciclo di pitture murali databili tra la fine dell’XI e l’inizio del XII secolo. I lacerti, emersi solo nel 1983, abbellivano l'antico refettorio dell'abbazia e rappresentano scene della Vita di San Benedetto e degli Atti degli Apostoli.
INTERNO
Poderosi pilastri quadrilobati dividono lo spazio interno, sobrio e maestoso, in tre navate longitudinali, che corrono verso il presbiterio sopraelevato. L’altare maggiore è costituito dall’originaria Arca di S. Silvestro, le cui otto lastre, raffiguranti gli episodi salienti della vita del santo, furono eseguite tra il 1568 e il 1572 dallo scultore Jacopo Silla de’ Longhi. Sotto il presbiterio si trova la cripta, che costituisce la parte più antica della chiesa, precedente alla ricostruzione dell’inizio del XII secolo. Le volte a crociera di questo vasto ambiente, che occupa lo stesso spazio del presbiterio soprastante, sono rette da 64 colonne e 22 semicolonne in cotto. Di grande pregio alcuni capitelli originali, risalenti a varie epoche. I più antichi, forse databili già all’VIII secolo, hanno caratteristiche tanto peculiari da essere definiti di tipo longobardo-nonantolano: si tratta di capitelli fogliati, a due o tre ordini sovrapposti, i cui rilievi scolpiti sono fortemente accentuati. I capitelli più bassi e aggraziati, decorati a palmette e sormontati da pulvini, sono invece più tardi (secoli XI e XII). Nella cripta sono conservati i resti di S.Anselmo, fondatore dell’Abbazia, S. Adriano III papa, S. Senesio, S. Teopompo, S. Fosca e S. Anseride. Tornando nella navata destra è possibile ammirare, entro un arco gotico, un pregevole affresco della seconda metà del XV secolo, attribuito al Maestro della pala dei Muratori. Le scene, divise in tre fasce, sono: in alto, la Crocifissione; al centro, l'Annunciazione; in basso i SS. Martino, Gregorio, Giovanni Evangelista, Giacomo Maggiore, Silvestro, Antonio Abate, Giorgio. Nella navata sinistra, vicino l’ingresso, si trova il fonte battesimale di forma ottagonale, che incorpora alcuni frammenti antichi.
Bisogna notare che l’attuale aspetto delle basilica è in gran parte frutto di una radicale campagna di restauro svoltasi tra il 1913 e il 1917 che, non senza scelte arbitrarie, tentò di ripristinare le antiche fattezze romaniche dell’edificio. In quell’occasione furono ad esempio demolite le volte a crociera della navata, sostituite con un tetto a capriate. Altri interventi di rilievo furono quelli relativi al presbitero, riportato a livello originale, e alla cripta, liberata dall’interramento del XV secolo.
Storia
Il 30 aprile del 1106 le reliquie di San Gimignano, vescovo e patrono di Modena vissuto nel IV sec. d.c., furono traslate nella cripta della nuova cattedrale cittadina, dedicata a Maria Vergine Incoronata. Il 7 ottobre del medesimo anno, il pontefice Pasquale II giunse in città per effettuare la ricognizione dei preziosi resti del santo e per consacrarne l’altare. Alla solenne cerimonia assistettero la magna comitissa Matilde di Canossa, il vescovo, i nobili (milites) e i borghesi (cives), ossia tutto il consesso cittadino che aveva unanimemente deliberato la costruzione dell’edificio, in sostituzione dell’antico Duomo ormai pericolante. La prima pietra del nuovo tempio era stata posta il 9 giugno del 1099, data che viene tramandata dall’epigrafe celebrativa retta da due delle figure scolpite sulla facciata, raffiguranti il patriarca antidiluviano Enoch e il profeta Elia. Il distico che conclude l’iscrizione contiene l’elogio dello scultore dei celeberrimi bassorilievi che ornano il fronte esterno della chiesa, ossia Wiligelmo. In un’altra epigrafe, posta all’esterno dell’abside maggiore, è invece menzionato l’architetto Lanfranco, “famoso per ingegno, preparato e competente direttore dei lavori, reggitore e maestro” del cantiere della Cattedrale. Le due iscrizioni celebrative, in cui vengono nominati gli artefici principali della “Domus clari [...] Geminiani”, testimoniano l’alto orgoglio municipale dei modenesi e la loro comprensibile soddisfazione per l’esito dei lavori fin lì eseguiti, che di fatto fruttarono uno dei massimi capolavori del romanico europeo. Nonostante questa prima prolifica fase, l’edificio fu definitivamente completato solo alcuni decenni più tardi e un’altra lunga iscrizione, scolpita sui blocchi di pietra del fianco meridionale, commemora la cerimonia di consacrazione della cattedrale officiata il 12 luglio del 1184 da papa Lucio III. Gli ultimi stadi di lavorazione furono condotti a termine da nuove maestranze di estrazione campionese che, a partire dalla seconda metà XII sec., subentrarono ai lapicidi comacini inizialmente guidati da Lanfranco. L’attività dei maestri campionesi proseguì comunque ben oltre la data ufficiale di consacrazione della chiesa, tanto che ancora nel 1319 le cronache registrano il compimento della cuspide ottagonale della torre campanaria (la “Ghirlandina”) da parte di Enrico da Campione. Oltre a gran parte della decorazione interna, i campionesi furono responsabili di alcuni sostanziali interventi in chiave gotica che alterarono l’originario aspetto romanico dell’esterno dell’edificio: è il caso del grande rosone e dei due portali laterali della facciata, o dell’imponente Porta regia realizzata intorno al 1178 sul fianco destro, in aggiunta alla preesistente Porta dei principi, risalente al primitivo cantiere lanfranchiano.
Esterno
Il visitatore attento si accorgerà della mirabile organicità fra l’esterno e l’interno della cattedrale modenese: due possenti contrafforti frazionano infatti la facciata in tre parti, corrispondenti al numero delle navate interne. Anche gli spioventi che fiancheggiano la cuspide centrale, suggeriscono la minore altezza delle due navate laterali rispetto a quella principale. Ad ogni navata corrisponde un portale, tra cui spicca quello mediano, dotato di un monumentale protiro, a sua volta sormontato da un’edicola. Le colonne del protiro poggiano su leoni stilofori risalenti al I sec. d. C., che rappresentano, pertanto, un classico esempio di reimpiego di materiale antico in un cantiere medievale. D’altronde, le stesse cronache segnalano durante i lavori il “miracoloso” ritrovamento di «miras lapidum marmorumque congeries», ossia di numerosi marmi romani che supplirono in buona parte alla costante penuria di materiale costruttivo. Lungo gli stipiti e l’archivolto del portale si dipana un’ininterrotta decorazione scultorea: su un fitto sfondo a carattere vegetale campeggiano figure umane, animali, mitologiche tipiche dell’affascinante quanto complesso immaginario fantastico e simbolico della civiltà medievale. Nella parte interna degli stipiti sono invece raffigurati i profeti dell’Antico Testamento. I rilievi del portale sono opera di Wiligelmo, così come le scene tratte dal libro della Genesi contenute nelle quattro lastre inserite sulla facciata, a ragione considerate una delle testimonianze più significative della scultura romanica europea. Nella prima, posta sopra il portale minore di sinistra, si succedono entro un teoria di archetti pensili le scene della Creazione del mondo, della Creazione di Adamo e del Peccato originale. La seconda lastra, alla sinistra del portale maggiore, raffigura La cacciata dei progenitori dal Paradiso terrestre e La condanna al lavoro della terra; appena sopra è visibile la lapide che riporta la data di fondazione della cattedrale e il celeberrimo elogio di Wiligelmo, retta dai profeti Elia ed Enoch; Nella terza lastra, posta alla destra del portale mediano, la scena del Sacrificio di Caino e Abele è seguita dall’Uccisione di Abele; nell’ultima, situata sopra il portale minore di destra, sono raffigurati Lamech che uccide Caino e Il diluvio universale, in cui compare un’affascinante raffigurazione dell’Arca di Noè in forma di basilica. Ai lati della base dell’edicola che sormonta il protiro, sono da notare altre due mirabili lastre eseguite da Wiligelmo, contenenti Geni funerari che spengono la fiaccola della vita. Si tratta di una elegante ripresa di un tema classico tratto dai sarcofagi di età romana. Sopra i portali, la facciata è percorsa da una fascia di archetti pensili poggianti su peducci a protomi, sovrastata da una grande loggia costituita da sei trifore inscritte entro alte arcate cieche. Tale motivo si ripete lungo i fianchi e le absidi, garantendo così l’unità ritmica dell’edificio. Sempre a Wiligelmo e alla sua officina vanno addebitati i mirabili capitelli figurati delle semicolonne che incorniciano le trifore. Opera dei maestri campionesi è invece il grande grande rosone, leggermente strombato, che corona in alto la facciata, eseguito entro la prima metà del XIII secolo. Le maestranze campionesi realizzarono anche la Porta Regia, monumentale ingresso situato sul lato meridionale che si affaccia sulla Piazza Grande. Eseguita entro il 1231, la Porta Regia si distacca consapevolmente dagli altri portali di impronta lanfranchiana, più semplici e austeri, conformandosi invece alla più fastosa tradizione lombarda. La porta, la cui preziosa bicromia è dovuta all’utilizzo del costoso marmo rosa di Verona, presenta un ampio protiro sormontato da una loggia in cui è conservata una statua in rame di San Geminiano, opera di Geminiano Paruolo (1376). Il fregio dell’arco del protiro è decorato da un ricco filare di rose che compare anche nella cornice del rosone della facciata. La volta a botte del protiro è sostenuta all’interno da un elegante fascio di colonnine annodate e all’esterno da due colonne poggianti su leoni stilofori che azzannano una preda. All’interno del protiro si apre il grande portale preceduto da una complessa strombatura. Sul lato meridionale è situata anche la Porta dei Principi, risalente al primitivo cantiere lanfranchiano. La sua struttura ricalca in termini semplificati quella del portale maggiore della facciata, con un protiro sostenuto da leoni stilofori e coronato da un’edicola concava. Gli stipiti sono decorati sul fronte esterno da un ininterrotto tralcio abitato da una congerie di figure reali e fantastiche; sulla faccia interna sono raffigurati, entro piccole nicchie, gli Apostoli. La fitta decorazione vegetale continua anche sull’archivolto soprastante. Nell’architrave sono invece narrati Sei episodi della vita di San Geminiano, relativi al suo viaggio in Oriente compiuto per liberare dal demonio la figlia dell’Imperatore Gioviano. I rilievi del portale sono attribuiti al Maestro di San Geminiano, strettamente legato alla lezione di Wiligelmo, e al più schematico Maestro dell'Agnus Dei. Sulle testate dei contrafforti sono poste quattro delle otto copie (le altre stanno sulla fiancata opposta) delle cosiddette Metope, celebri emblemi della straordinaria decorazione scultorea del Duomo di Modena, i cui originali sono oggi conservati nel Museo Lapidario. Le Metope, raffiguranti figure umane mostruose, furono realizzate nei primi decenni del XII secolo da un geniale scultore anonimo, forse allievo di Wiligelmo, ma certo informato della coeva arte borgognona. Tornando verso le absidi, all’altezza del transetto, si nota un pulpito eseguito nel 1501 da Jacopo da Ferrara. Nell’ultima arcata del fianco meridionale è invece murata una lastra con Quattro episodi della vita di S. Geminiano, firmata dallo scultore toscano Agostino di Duccio nel 1442. Nel retro dell’edificio si sviluppano tre absidi cilindriche, le due laterali simmetriche e quella centrale, più alta e leggermente più aggettante. In quest’ultima, appena sopra la finestrella centrale, si trova la lapide con l’iscrizione in cui è ricordato il nome dell’architetto Lanfranco. Nel complesso, anche la zona absidale ripete la partitura architettonica e decorativa della facciata e dei fianchi laterali. A fianco delle absidi si erge l’imponente torre campanaria, orgoglioso simbolo della città di Modena, meglio nota come Ghirlandina. I cinque piani dell’originale struttura romanica a pianta quadrata furono realizzati entro il 1179. Essi sono divisi da una serie successiva di cornici sovrapposte ad archetti pensili e sono aperte, progressivamente, da finestre monofore, bifore e trifore. Tra il 1261 e il 1319 la torre subì un ulteriore sviluppo, raggiungendo la ragguardevole altezza di 88 metri, grazie all’aggiunta di una base ottagonale culminante in una cuspide piramidale. La guglia, di spiccato gusto gotico, fu progettata da Arrigo da Campione e appare impreziosita da due “ghirlande”, ossia leggiadre balaustre di marmo, da cui deriva appunto l’affettuoso nomignolo. La torre svolgeva anche un’importante funzione difensiva, nonché di forziere pubblico in cui erano conservati gli atti e i trofei della città, come la celebre secchia rapita, oggetto a lungo conteso tra modenesi e bolognesi, che ispirò l’omonimo poema eroicomico di Alessandro Tassoni (1565-1635). Sul fianco settentrionale dell’edificio è da notare la Porta della Pescheria, nella quale si ripete in sostanza lo stesso schema delle altre porte realizzate prima degli interventi dei campionesi: Il portale incorniciato da stipiti decorati, raccordati da architrave a archivolto, è contenuto entro un protiro a due piano sostenuto da leoni stilofori. L’incongruenza dimensionale fra la lunghezza dell’architrave e l’archivolto rivela ad ogni modo le manomissioni successive subite dal portale originale. Un tralcio vegetale abitato da figure disparate, tra cui alcune tratte dalla favolistica antica, decora la faccia esterna degli stipiti del portale. Quella interna presenta invece un interessante Ciclo dei Mesi, ognuno dei quali indicato da un’iscrizione abbreviata e rappresentato attraverso la raffigurazione di un momento peculiare della vita contadina. I rilievi dell’archivolto narrano invece episodi ispirati all’affascinante leggenda bretone di Re Artù, già diffusa in tutta l’Europa medievale a partire dalla prima metà del XII secolo grazie alla Historia Regum Britanniae di Goffredo di Monmouth.
STORIA
Costruita sulla vallata del Samoggia, l’abbazia di Monteveglio, intitolata alla Madonna, venne eretta per celebrare la vittoria di Matilde di Canossa su Enrico IV. L’imperatore infatti venne sconfitto nell’assedio della rocca matildinica Monteveglio avvenuto nel 1092. La storia è quasi leggenda, infatti Enrico IV venne vinto da un pugno di uomini che non solo riuscirono a resistere per mesi, ma persino il figlio dell’imperatore perse la vita nello scontro finale. Fu l’inizio del suo declino: nel viaggio di ritorno in Germania tentò di assalire il castello di Matilde, ma venne sconfitto nuovamente. Tornato in patria fu detronizzato. Come atto di ringraziamento, la grande contessa fece edificare l’abbazia di Monteveglio che si aggiunse alla chiesa già esistente. Il monastero fu affidato all’ordine agostiniano di San Frediano di Lucca, ma nel 1455 passò ai Canonici Laternanensi di San Giovanni in Monte di Bologna. La chiesa viene anche ricordata per aver ospitato Ugo Foscolo, il quale, viaggiando sotto mentite spoglie, venne imprigionato perché sospettato di essere una spia austriaca.
NOTIZIE STORICO-ARTISTICHE
L’assetto attuale dell’abbazia è dovuto dal restauro diretto dall’architetto Rivani avvenuto tra il 1925 e il 1934. L’intento è stato quello di riportare il complesso allo stato originale, eliminando gli ammodernamenti avvenuti nel corso dei secoli, ritenuti posticci e non autentici. Fondata nel V secolo, la chiesa mantiene ancor oggi l’assetto romanico, assunto in epoca matildinica. Il tempio presenta una facciata originale del XII secolo orientata a ovest. La pianta è a tre navate, con il presbiterio sopraelevato per ospitare nella zona sottostante l’antica cripta. Questa è divisa da quattro campate di pilastri e colonne, termina con tre altari corrispondenti a tre absidi e in quello centrale è presente un’autentica pietra tombale di epoca romana con decorazione a cornici concentriche. Nella navata destra si trovano opere di epoca longobarda: l’acquasantiera, e uno dei capitelli presenti che riproduce le tipiche forme tratte dall’oreficeria di produzione langobardorum. Da notare le monofore delle absidiole ancora in alabastro e mai sostituite. Dalla navata centrale una scala di epoca barocca conduce al presbiterio, posto sopra la cripta e illuminato da monofore chiuse da lastre di alabastro. Al centro del presbiterio a tre absidi c’è l’altare di marmo rosso di Verona, poggiato su cinque colonne mentre ai lati si può ammirare lo splendido coro rinascimentale in noce. Notevoli sono pure le splendide absidi visibili dal retro, abbellite da archetti pensili e da monofore. Curioso è inoltre il campanile che non poggia su alcuna fondamenta, ma è stato semplicemente edificato su una delle absidi. All’interno del complesso sono visibili due chiostri, il maggiore, realizzato nel Quattrocento, presenta un loggiato superiore che dava l’accesso alle celle dei canonici. Nel porticato inferiore sono visibili antiche lapidi dipinte volte a ricordare la storia del monastero. Invece, il chiostro più antico, collocato sul retro, è andato in gran parte distrutto: è infatti sopravissuto solo un lato ancora decorato da capitelli antropomorfi risalenti al XII secolo.
LETTURE CONSIGLIATE
Nono centenario dell’abbazia di Monteveglio 1092 – 1992, in L’abbazia e la sua storia, atti del convegno di studi, 30 settembre – 11 ottobre 1992, Perugia 1995
G. Rivani, Il castello e l’abbazia di Monteveglio: memorando nei secoli, Bologna 1953
STORIA
La cripta di San Zama faceva parte del monastero intitolato ai Santi Naborre e Felice, oggi sede del Comando Militare dell’Esercito italiano in Emilia Romagna, già ospedale militare. La storia della cripta è legata al sorgere della prima comunità cristiana bolognese. Si è a lungo creduto che San Zama fosse la prima cattedrale, perchè proprio in questo luogo sacro furono sepolti i resti dei primi vescovi bolognesi, a partire dallo stesso Zama. Più verosimilmente invece, come è accaduto proprio per il complesso di Santo Stefano, in quest’area sorgeva uno dei primi cimiteri cristiani dove venivano inumati anche i vescovi bolognesi, a causa del divieto (in essere fino al V secolo) di seppellire i morti entro le mura della città. Secondo la leggenda la dedica del luogo venne attribuita da san Pietro in persona, mentre la sua fondazione si deve proprio a Zama. Il vescovo Faustiniano, successore di san Zama, non solo contribuì ad aumentare la fama del santuario, costruendo una basilica più ampia, ma mutò anche intitolazione della chiesa ai Santi Naborre e Felice, martiri della Chiesa milanese, da cui Bologna dipendeva. Tutti i vescovi della diocesi bolognese furono inumati qui fino all’VIII-IX secolo, fatta eccezione di San Petronio sepolto invece nel complesso di Santo Stefano. Dopo un lungo periodo di silenzio delle cronache, si hanno le prime notizie dal X secolo, quando viene denunciato un grave stato di degrado dell’abbazia, collocata nella zona definita civitas antiqua rupta. Solo dopo il Mille, con l’arrivo dei monaci benedettini, venne data nuova vita al complesso. I religiosi ricostruirono la chiesa in stile romanico, dotandola di una cripta, realizzarono il monastero e nel corso del Trecento la torre campanaria e la sagrestia. In questo periodo il convento, denominato l’Abbadia, diventò uno dei più importanti centri di studi della città. Ma le lotte del XV secolo fra i signori bolognesi e il papato coinvolsero il monastero, portando all’abbandono dei benedettini e alla conseguente rovina dello stesso. Dopo un secolo di decadenza, il papa assegnò il complesso alle suore clarisse.
NOTIZIE STORICO-ARTISTICHE
La cripta è l’unico elemento romanico sopravvissuto all’interno dell’intero complesso. Per la sua realizzazione furono utilizzati elementi di reimpiego provenienti da edifici preesistenti. In questo luogo, al quale probabilmente si accedeva da due scale poste ai lati del presbiterio rialzato, erano custodite le spoglie dei vescovi bolognesi, trasportate in San Pietro nel 1586, per volere dell’arcivescovo Gabriele Paleotti. La tomba vuota restò nella cripta fino alla soppressione napoleonica del 1799, quando fu portata al cimitero della Certosa e da qui al complesso di Santo Stefano, dove si trova ancora oggi. Ne rimane impressa la memoria nell’iscrizione quattrocentesca conservata nel sacello. L’assetto odierno della cripta, molto più vicino alla struttura di una cappella, è dovuto alla trasformazione operata dalle clarisse che decisero di isolarla dall’edificio sovrastante creando piccole nicchie dove c’erano le scale di accesso e aprendo, al termine della navata centrale, un vano per ospitare un altare con cinque piccole edicole devozionali. Alle colonne che dividono la cripta in tre navate furono inseriti dei piloni per sostenere il presbiterio. Al suo interno sono collocati alcuni frammenti architettonici: parte di decorazione di un’antica lapide marmorea, una croce in pietra e una parziale iscrizione sepolcrale secentesca. Le tre navate terminano con absidi semicircolari. Nella nave centrale il ritmo delle colonne è alternato alla presenza di pilastri quadrilobati in muratura. La copertura crociera presenta alcune tracce di decorazioni pittoriche di epoca tardo rinascimentale. Nelle quattro colonne che precedono l’altare, si notano i capitelli in marmo bianco molto simili tra loro, decorati con volute a doppio ordine di fogliame, rosette e croci. Gli studiosi le hanno attribuite a epoche molto diverse che vanno dal VI al XII, ma la presenza della croce nel blocco marmoreo dei capitelli ne confermerebbe l’originale impiego cristiano. I capitelli poggiano su colonne costituite da materiali diversi di reimpiego. Particolari i fusti delle colonne dell’intera zona centrale, costruiti riutilizzando probabilmente il ciborio della basilica precedente alla costruzione del “periodo benedettino”. Infatti questi fusti sono stati ricavati tagliando alla stessa altezza quattro colonne, per realizzarne un totale di otto. La prima colonna a sinistra dell’altare maggiore presenta una base marmorea classica di tipo attico di epoca romana. Nella fila delle colonne a sinistra è visibile un altro capitello in marmo con decorazione a foglie angolari intagliate, simili a palmette e gambi tortili, datati al VI secolo perché molto vicini a quelli presenti nella chiesa dello Spirito Santo a Ravenna. L’altare dell’abside centrale è costituito da un’antica mensa sostenuta da cinque colonne di pietra del XI e XII secolo; secondo gli studiosi erano in origine collocate nel chiostro romanico scomparso.
LETTURE CONSIGLIATE
S. D’Atri, La cripta di San Zama, Bologna 1997
Storia della Chiesa di Bologna, Bologna 1997
A.Benati, I primordi della Chiesa bolognese e il complesso dei Santi Naborre e Felice in Santa Maria della Carità in Bologna. Una parrocchia nella città, Bologna 1991
O. Piracini, L’Abbadia dei Santi Naborre e Felice nella storia e nell’arte, Bologna 1975
G. Rivani, L’abbadia dei Santi Naborre e Felice, ora Ospedale militare in Bologna, in Strenna Storica Bolognese, XVIII, 1968
STORIA
Secondo la tradizione fu San Vittore, primo vescovo piacentino, a fondare la basilica in una zona denominata Valle Nobile e qui venne sepolto nel 375. A lui inizialmente la chiesa venne intitolata, ma nel 400 il vescovo Savino fece traslare le spoglie di Sant’Antonino martire (303), che divenne poi insieme a Vittore il co-patrono della città. Con la nuova intitolazione al martire, la basilica fu per alcuni secoli la prima cattedrale e mantenne per lungo tempo un ruolo di preminenza spirituale e politica: infatti nel 1183 fu il luogo prescelto per l’incontro tra i messi imperiali ed i rappresentati della Lega Lombarda in occasione della firma della pace di Costanza. Invero, Sant’Antonino venne sostituita come cattedrale nel 758, quando all’interno delle mura cittadine fu eretta San Giovanni de Domo, a sua volta rimpiazzata da Santa Giustina. Nell’870 la semplice basilica paleocristiana venne invece ampliata con la costruzione di un transetto e di un tiburio quadrato impostato sull’incrocio. Questa chiesa fu ripetutamente devastata dalle scorrerie ungare del X secolo, e, nel 1004, il vescovo Sigfrido promosse l’erezione di un terzo e nuovo tempio, i cui caratteri pre-romanici e la perimetria permangono sostanzialmente nell’edificio odierno. Numerose furono nei secoli della Modernità le modifiche e le ristrutturazioni del complesso, in particolare nel 1693 l’interno fu trasformato secondo il gusto Barocco, per poi essere completamente rimaneggiato secondo la cultura neomedievale ottocentesca nel 1853. La complessità strutturale di Sant’Antonino, la preminenza della sua storia e l’unicità di alcuni suoi caratteri architettonici, la eleggono ad uno dei più importanti complessi cultuali di Piacenza, vero scrigno di alcuni preziosi tesori artistici.
NOTIZIE STORICO-ARTISTICHE
Le vicende storiche e l’evoluzione del gusto architettonico hanno inciso profondamente sulla struttura e sulla varietà stilistica pertinente al complesso basilicale piacentino. La mole dell’edificio innalzato dal vescovo Sigfrido ha in qualche modo inciso anche sugli interventi successivi, donando una spettacolarità unica alla chiesa e determinando una mescolanza di stili che riescono ad amalgamarsi in maniera sorprendentemente armonica. Il cotto è certamente il leitmotiv della costruzione e il sobrio mattone padano diventa così il collante che permette quest’affascinante amalgama strutturale. La pianta è a croce latina rovesciata, con il transetto preceduto dalle navate e la grossa torre ottagona che s’innalza al di sopra dell’incrocio. Inoltre, nel 1350 per opera di Pietro Vago venne costruito un grande atrio, chiamato il “Paradiso”, che in forme gotiche lombarde ha la funzione specifica di esaltare l’ingresso principale. Come anticipato, gli interventi dell’XI secolo ricostruirono sostanzialmente l’edificio preesistente, la pianta a croce latina venne ruotata di quarantacinque gradi, il braccio est venne allungato e vennero innalzate tre navate terminate da absidi. In questa fase venne innalzata la grande torre aperta con tre piani di bifore e venne costruito un chiostro sostituito nel 1523 dall’attuale in forme rinascimentali. Sempre nel periodo romanico, verosimilmente nel XII secolo, l’ingresso principale fu corredato da un bel portale scolpito di matrice antelamica: sugli stipiti infatti la raffigurazione dei Progenitori sottende i modelli del maestro padano tradotti però in un gergo più schietto ed essenziale. L’interno della chiesa, in origine probabilmente cassettonato, venne coperto con volte ogivali nel 1453, mentre i capitelli originari a cubo smussato sono attualmente celati dai rifacimenti successivi. Dalla copertura quattrocentesca emerge invece un interessante fregio pittorico databile all’XI secolo: questa remota testimonianza della decorazione romanica doveva probabilmente svilupparsi su due registri e ricoprire le pareti secondo il gusto dell’epoca. In tal senso le figure dei profeti dalla schietta frontalità trovano però tenui accenti naturalistici grazie al loro inserimento in un loggiato dipinto. Tali figure dovevano sovrastare scomparti pittorici narrativi svolti in un profluvio di cromie, ad essi verosimilmente si deve correlare l’affascinante Giudizio Universale, i cui lacerti, emersi nel braccio ovest del transetto nei restauri degli anni ottanta, testimoniano la qualità della bottega operante e la maturità del lessico pittorico bizantino, probabile testimonianza della volontà di una committenza erudita e raffinata.
LETTURE CONSIGLIATE
S. Stocchi, Sant’Antonino a Piacenza, in Italia Romanica. L’Emilia-Romagna, Milano 1984.
L. Bertelli, Restauro e consolidamento di Sant’Antonino antica cattedrale di Piacenza, Casalecchio di Reno 1991.
STORIA
La cattedrale di Piacenza è uno degli edifici romanici più importanti della Pianura Padana, la cui fondazione è ricordata da una lapide collocata sulla facciata e datata 1122. Infatti, nel 1117 un potente terremoto devastò la regione e diversi edifici di Piacenza, tra cui l’antica cattedrale di Santa Giustina, fu probabilmente quella la motivazione della nuova costruzione, contemporanea ai cantieri del Duomo di Parma e dell’Abbazia di Nonantola. Invero, un altro fatto storico particolarmente importante può essere ricollegato alla nascita del duomo, nel 1126 furono eletti i primi 5 consoli della città, che sancirono sostanzialmente la definitiva ascesa del potere comunale. La cattedrale diventò così l’espressione del Comune e della spiritualità della cittadinanza che sostenne finanziariamente la sua costruzione attraverso le proprie corporazioni. Per tali ragioni è probabile che almeno per il terzo decennio del XII secolo continuarono ad esistere due cattedrali distinte, per certi versi rivali: i vescovi mantennero infatti la loro sede nella vecchia chiesa di Sant’Antonino, mentre Santa Giustina fu legata da subito alle sorti della nuova istituzione. Come tutti i grandi cantieri emiliani, anche il duomo di Piacenza impiegò più di un secolo per essere completato, ciò avvenne grazie all’attività di Rinaldo Santo da Sambuceto, ricordato nel 1233. Le fasi costruttive furono diverse, e possono sostanzialmente essere raggruppate in due periodi: il primo, centrale per la decorazione scultorea e la composizione strutturale dell’edificio, durò fino al 1150, il secondo prese invece avviò nel 1179, dopo la battaglia di Legnano, e con vicende alterne durò fino alla conclusione dei lavori nel secondo quarto del XIII secolo. Nei secoli successivi diverse furono le modifiche apportate alla struttura: in epoca gotica il rosone sulla facciata, nel 1333 la torre campanaria e la cappella battesimale, mentre l’interno subì numerosi cambiamenti soprattutto in epoca Post-Tridentina. Alla fine dell’Ottocento venne poi avviato un intervento radicale di restauro che staccò gran parte delle pitture e delle altre decorazioni databili al XVII secolo, donando all’edificio un estremo aspetto romanico di gusto sostanzialmente neomedievale.
NOTIZIE STORICO-ARTISTICHE
La cattedrale nacque probabilmente con un impianto a tre navate privo del transetto e forse la facciata fu concepita per essere impostata tra due campanili collegati alla prima campata, nel 1333 ne venne costruito uno solo. La prima fase fu caratterizzata dall’attività di maestri muratori e lapicidi formatisi sul linguaggio wiligelmico, maestranze che provenivano dai cantieri modenesi e nonantolani. La critica ha evidenziato in questi interventi scultorei anche la presenza del grande Nicolò, il prestigioso maestro padano che fu attivo tra Wiligelmo e Benedetto Antelami. A Piacenza, Nicolò ebbe certamente un ruolo importante poiché firmo nel 1122 la realizzazione del portale destro, dove nell’architrave sono raffigurate le storie di Cristo, mentre nell’archivolto si diparte una decorazione caratterizzata da motivi vegetali e geometrici. La sua cultura artistica si sviluppava dalla lezione di Wiligelmo, ma prediligeva un rilievo meno aggettante, maggiore raffinatezza nei dettagli ed una sapienza lineare quasi pittorica. Questo linguaggio fu ampiamente utilizzato nella cattedrale, è infatti probabile che alcune delle botteghe attive negli interventi scultorei successivi, in particolare quelli realizzati intorno al 1150 nella navata, relativi alle formelle dei Paratici (rappresentano le attività delle corporazioni), furono l’opera di creati di Nicolò. La facciata della cattedrale in origine era costituita da blocchi d’arenaria, nella parte inferiore venne poi utilizzato un rivestimento di marmo rosa; le linee architettoniche sono molto simili a quelle della cattedrale di Parma, la facciata è altresì strutturata con due contrafforti, presenta gallerie cieche ritmate su colonnine e tre portali con ampi brani di decorazione scultorea. Bellissimi i leoni stilofori ed i telamoni che sorreggono gli architravi, ogni portale è sormontato poi da protiri a due piani. La decorazione scultorea del portale centrale è in gran parte opera dei rifacimenti ottocenteschi con tanto di firma del vescovo committente, Scalabrini, e dell’architetto responsabile, Guidotti. Il portale sinistro ospita invece, racchiuse in sette arcate separate da colonnine tortili, le storie dell’infanzia di Cristo, la cultura è quella wiligelmica prossima agli esempi nonantolani ed alla porta della Peschiera a Modena. Inoltre, nel transetto si apre un altro piccolo portale sempre di cultura romanica con la raffigurazione di Cristo tra Maria e un angelo. I fianchi della cattedrale in pietra sono sormontati da una galleria scandita da contrafforti, sono presenti monofore con arco a tutto sesto e altre ogivali; la galleria doveva poi continuare nell’abside del transetto che è rimasto però incompiuto. Le absidi delle navate sono realizzate anch’esse in pietra calcarea e decorate con una galleria le cui colonnine presentano capitelli scolpiti con teste umane e animali, anche qui sono presenti numerosi interventi di restauro. Nel grande abside centrale si apre poi un finestrone decorato con diverse figurazioni, dall’Agnus Dei all’Annunciazione; secondo la critica, questa parte, che mostra evidenti integrazioni, sarebbe frutto di una ricostruzione arbitraria che utilizzò materiali di reimpiego provenienti verosimilmente dalla facciata. La pianta del duomo è a croce latina scandita internamente da ventisei pilastri, cinque le campate della navata centrale , sei di metà lunghezza per ogni braccio del transetto e dieci di uguale misura nelle navatelle. Proprio nelle navatelle è evidente come la parte inferiore della costruzione mantenga ancora l’articolazione romanica, mentre la parte superiore evidenzia già caratteri formali sostanzialmente gotici. Sulle pareti della navata furono realizzati dei falsi matronei, infatti le finestre sono ricavate nel muro ed hanno una sostanziale funzione di alleggerimento e modulazione della luce. Oltre alle sette formelle superstiti dei Paratici con i mestieri murate sui pilastri, capolavoro della scultura romanica d’ambito nicolesco, anche i loro capitelli presentano diverse decorazioni: fitomorfe, zoomorfe ma anche figurate, come quelle della controfacciata con le storie di David. Infine, la cripta con le sue centotto colonne in marmo ed i capitelli si caratterizza come una delle la parti più armoniose e meglio conservate dell’edificio.
LETTURE CONSIGLIATE
AA. VV., l l Duomo di Piacenza (1122-1972): atti del Convegno di studi storici in occasione dell'850 anniversario della fondazione della Cattedrale di Piacenza, Piacenza 1975.
S. Stocchi, La cattedrale a Piacenza, in Italia Romanica. L’Emilia-Romagna, Milano 1984.
C. Demetrescu, Proverbi di pietra: duomo di Piacenza, Sant'Eufemia (Piacenza), duomo di Ferrara, Rimini 1999.
STORIA
La pieve di San Lorenzo di Panico sorge a nord di Marzabotto ed è considerata una delle più belle costruzioni romaniche dell’Appennino bolognese. L’edificio conserva ancora gran parte delle strutture originarie, anche se all’inizio del secolo scorso subì un rilevante e radicale intervento di restauro che ha cancellato gli interventi strutturali moderni. Non esistono documenti specifici che relazionino la costruzione della pieve alla famiglia dei Conti di Panico, anche se i rapporti con i feudatari della montagna furono frequenti e i canonici certamente trassero giovamento dalle loro cospicue donazioni. Il primo documento che cita San Lorenzo risale al 1030, ma probabilmente il complesso era più antico, come pare confermare le vaste giurisdizioni canonicali nell’XI secolo. Nel 1208 è testimoniata una donazione relativa alla costruzione di un chiostro e nel 1248 venne realizzato il dormitorio dei canonici: queste strutture sono la testimonianza che nel XIII secolo la pieve possedeva un’articolata struttura, degna di uno dei più importanti edifici religiosi del bolognese. Inoltre, nel 1289 sono documentati il ponte sul Reno e l’ospedale annesso, anche se non sono state ancora rintracciate testimonianze certe sul loro possesso da parte della pieve.
NOTIZIE STORICO-ARTISTICHE
La storiografia relativa alla Pieve di San Lorenzo testimoniava già nel passato la monumentalità dei suoi edifici, la ricchezza dei corredi e la qualità delle decorazioni, questo stato di cose derivava dalle fortune dei Panico e visse un momento di sostanziale crisi a partire dalla fine del XIII secolo. La pieve ha una pianta monoabsidata a tre navate, le pareti sono realizzate con conci di arenaria squadrati, armoniosamente connessi soprattutto nella facciata. La qualità strutturale e le caratteristiche morfologiche ricordano la chiesa di San Pietro in Valdottavo in provincia di Lucca e di Santa Maria Assunta di Rubbiano nel Modenese. Le modifiche moderne e le ristrutturazioni novecentesche hanno mutato profondamente l’edificio, ma alcune testimonianze del passato riportano l’esistenza di monofore allungate e strette a doppia strombatura collocate sui fianchi della chiesa, mentre la muratura doveva essere caratterizzata da motivi ornamentali in mattoni policromi, similmente al complesso di Santo Stefano a Bologna. L’interno sobrio è caratterizzato da un colonnato monumentale che presenta alcuni capitelli di imitazione corinzia decorati con festoni, motivi astratti, zoomorfi o fitomorfi. La parte meglio conservata dell’edificio è certamente l’abside caratterizzato da una preziosa ornamentazione architettonica che in origine doveva svilupparsi su diverse strutture, mentre oggi risalta soprattutto nella splendida decorazione geometrica e vegetale delle monofore. Nella loro decorazione la qualità degli interventi si esplica attraverso un arco cordonato supportato da colonnine tortili con capitelli cubici e due fasce ai lati di diverse dimensioni, caratterizzate da un motivo vegetale con cornucopie o da cerchi irregolari collegati da un vimine a due capi. Il repertorio iconografico della pieve, con figure schematiche di animali e motivi vegetali, è comune a numerosi monumenti del territorio: un linguaggio di schietta aderenza romanica diffuso nel nord Italia che riuscì a mantenere una sua coerenza nel tempo, correlata all’ampia versatilità d’impiego.
LETTURE CONSIGLIATE
R. Zagnoni, La pieve di San Lorenzo di Panico nel Medioevo, in “Nuèter”, 32, 2006, n. 63, pp. 137-192.
P. Foschi, P. Porta, R. Zagnoni, Le pievi medievali bolognesi (secoli VIII-XV). Storia e arte, Bologna 2009.
R. Zagnoni, La pieve di San Lorenzo di Panico, in A. Antilopi, B. Homes, R. Zagnoni, Il romanico appenninico, pp. 78-91.
STORIA
Il cenobio venne probabilmente costruito nel luogo chiamato Monte Giardino già nel XI secolo, è infatti documentata almeno dal 1073, inoltre la chiesa romanica, edificata nel XII secolo, mostra nel presbiterio le tracce di un edificio precedente. La chiesa venne poi consacrata dal vescovo Giovanni IV nel 1178, mentre nel 1241 le cronache narrano che il vescovo Enrico II della Fratta volle ritirasi nel monastero e qui morire in preghiera e povertà. Il complesso sembra essere sorto come un luogo di eremitaggio, divenne poi abbazia monastica affidata ai Canonici Regolari Lateranensi e come tale rimase fino alle soppressioni del 1798. Antonio Aldini lo vendette per 980 lire a Pietro De’ Lucca che a sua volta lo passo al centese Giuseppe Civolani. Questi in punto di morte lo donò all’Ospedale di Cento, successivamente venne acquistato dai Filippini nel 1833, ma con le soppressioni postunitarie del 1866 passò al Genio Militare che sconvolse le sue pertinenze. Dato l’alto valore storico ed a seguito dell’interessamento della Deputazione di Storia Patria, il complesso venne affidato al Ministero della Pubblica Istruzione, che nel 1892 lo concesse alla Curia che riaprì al culto la chiesa. Ritornati i Padri Filippini nel 1914 il Comitato per la Bologna Storico Artistica promosse un radicale intervento di restauro, che in parte ripristinò, in parte ricostruì l’identità romanica degli edifici cultuali, del chiostro e del monastero.
NOTIZIE STORICO-ARTISTICHE
La bella chiesa romanica è strutturata in due parti divise da un’imponente diaframma murario alleggerito nella parte superiore da due loggette a tre archi. L’impianto è a navata unica e prima delle distruzioni ottocentesche aveva un abside quadrata, il diaframma divide la chiesa in una inferiore, dedicata ai fedeli, e in una superiore, dedicata ai religiosi. Perciò la struttura presenta ancora l’antica divisione tra lo spazio dei laici e quello dei canonici, ma al posto della tradizionale iconostasi qui troviamo un muro separatorio. Lo splendido chiostro venne realizzato, come gran parte degli edifici contigui nel XV secolo. Una delle prerogative della chiesa di San Vittore è che in essa sono conservati alcuni dei più importanti affreschi duecenteschi della regione. Infatti, i lacerti pittorici staccati negli anni Settanta del XX secolo, e ora collocati su pannelli poste alle pareti, sono la testimonianza di un importante ciclo pittorico che nel XIII secolo decorava l’intero edificio. Parte degli affreschi si trovavano nascosti dal quattrocentesco coro ligneo che occupa tre lati (nord, ovest, sud) della chiesa superiore. Il ciclo è stato ricollegato alla figura del vescovo Enrico delle Fratte che qui si ritirò, facendo costruire la parte superiore della chiesa. Lì infatti era collocato l’immagine di San Vittore, l’Annunciazione, i lacerti con la Strage degli Innocenti, la serie dei profeti, posta su due fasce sovrapposte si trovava invece sulle pareti laterali. La tavolozza è essenziale, gli sfondi monocromatici ed i pochi accenti spaziali evidenziano ulteriormente la dimensione simbolica e devozionale degli affreschi. Invero, il desiderio di tridimensionalità caratteristico alla pittura del Duecento viene esemplato nella serie dei profeti dalla proiezione oltre il bordo dei piedi. La cultura artistica di riferimento è quella della pittura bizantina diffusa in gran parte del centro e del nord Italia nella prima metà del secolo. In regione gli esempi sono diversi, ma la dignità classicheggiante e la ricercata stilizzazione possono essere avvicinati ai frammenti conservati nella chiesa di Sant’Apollinare a Russi.
LETTURE CONSIGLIATE
AA.VV., San Vittore, in Le chiese di Bologna, Bologna 1992.
Gli affreschi di San Vittore. Restauro e ricollocazione, a cura di J. Bentini, Bologna 2000.
San Vittore, in Duecento, catalogo della mostra, 2000, Vicenza 2000, n. 29, pp. 143-145.
STORIA
La fondazione della pieve romanica di Santa Maia in Castello è legata ad una leggenda risalente all’epoca della dominazione longobarda. Si narra infatti che re Astolfo, nella metà del VIII secolo, durante una battuta di caccia nelle campagne carpigiane perse il suo amato falcone. Dopo lunghe ricerche il predatore venne trovato sui rami di un carpine e il re per rendere grazie alla Madonna ordinò la costruzione di una chiesa.
Leggenda a parte la storia del complesso può essere ricostruito a grandi linee da tre lastre murate nella facciata: nella prima (probabile rifacimento cinquecentesco di un’iscrizione più antica) si segnala il 751 come data di fondazione; nella seconda si celebra la consacrazione della chiesa officiata da papa Lucio III nel 1184, mentre nella terza si attesta la parziale demolizione dell’edificio e la sua trasformazione in oratorio, avvenuta nel 1515.
La pieve fu ricostruita più volte: infatti sull’antico complesso longobardo venne edificata una nuova chiesa nel corso del XII secolo, probabilmente per volere della contessa Matilde di Canossa. Nel primo Cinquecento, come attesta la lapide sopracitata, rimasero dell’antico complesso rimasero in piedi solo l’abside e la zona presbiteriale, alle quali è stata aggiunta una facciata rinascimentale ancor oggi visibile.
NOTIZIE STORICO-ARTISTICHE
La pieve romanica probabilmente era costituita da tre navate coronate da absidi. Dell’antica chiesa oggi si conservano solamente l’ultima campata e la zona absidale, ma è ancora visibile l’originale partizione basilicale in tre navate, sebbene il sobrio aspetto in mattoni e le travi di copertura derivino dal restauro tardo-ottocentesco di Achille Sammarini.
Nella facciata rinascimentale, voluta dal signore della città Alberto Pio, è inserito un portale romanico collocato in precedenza nel fianco settentrionale della chiesa e lì collocato poco prima dell’abbattimento per la realizzazione del nuovo oratorio rinascimentale. Il portale presenta stipiti e colonnine addossate sono abbelliti da capitelli decorati con foglie ripiegate a formare l’archivolto. Al di sopra dell’architrave ornata a racemi, una lunetta con scolpita la Crocifissione. Il restauro di fine Ottocento ha riproposto le antiche strutture romaniche con la ricostruzione dell’abside e del fianco meridionale prendendo a modello le parti sopravvissute, in particolare il lato settentrionale e i due capitelli con protomi animali, avvicinati alla scuola di Wiligelmo. La muratura a sinistra del portale e l’abside presentano il paramento originario, caratterizzato da lesene coronate da capitelli e archi ciechi, intervallati da archetti pensili, a imitare le strutture del duomo di Modena. A fianco della chiesa domina l’alto campanile del 1221 che termina con una cuspide a coronamento della loggetta circondata da quattro torrette. La torre campanaria presenta un doppio ordine di bifore abbellite da capitelli figurati, la cui decorazione deriva dai bestiari medievali avvicinandola così all’architettura lombarda.
All’interno la pieve conserva nella parete di controfacciata un ambone marmoreo del XII secolo, composto da lastre che probabilmente facevano parte di un’antica recinzione presbiteriale. Il pulpito è costituito da una cassa rettangolare sostenuta da due mensole e abbellita da sculture, attribuite a Nicolò, uno dei più importanti seguaci di Wiligelmo. I rilievi presentano i simboli di tre evangelisti: il leone (san Marco), l’aquila (san Giovanni) e il toro (san Luca) che rivelano una certa attenzione per il dato naturalistico. La lastra del lato sinistro raffigura l’angelo di san Matteo che tiene il libro aperto tra le mani caratterizzate da una grande minuzia nei particolari. Sul lato destro si vede la figura di un profeta scolpito su uno sfondo a doppia pelta, motivo usato nel duomo di Modena per rappresentare l’acqua nelle formelle della Genesi.
Da notare anche due cappelle decorate secondo il gusto tardogotico: quella di San Martino, posta a coronamento della navata sinistra e affrescata nel 1424 da Antonio Alberti da Ferrara, e quella di Santa Caterina, dipinta all’inizio del Quattrocento da maestranze affini alla bottega di Giovanni da Modena.
Nella navata destra è collocato l’imponente sarcofago di Manfredo Pio, primo signore di Carpi, realizzato da Sibellino da Caprara nel 1351. Manfredo è raffigurato come gisant sopra il catafalco contornato da due angeli reggi-cero. Sul fronte della cassa si susseguono tre formelle che raffigurano (partendo da sinistra) Manfredo viene presentato da Santa Caterina e da San Giovanni Battista alla Vergine Maria, posta nel riquadro centrale, mentre sulla destra San Giorgio a cavallo uccide il drago. I lati corti invece sono decorati da un cavaliere, identificato col defunto e una Crocifissione.
LETTURE CONSIGLIATE
Tesori e segreti delle cattedrali romaniche di Modena e Parma, Parma 2007
Carpi: la chiesa della Sagra, Modena 1984
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