Lunedì 23 Luglio 2012 13:23

Abbazia di San Mercuriale

STORIA

Sul lato meridionale della piazza Aurelio Saffi si affaccia l'abbazia di San Mercuriale che costituisce il complesso monumentale romanico più significativo dell'intera provincia forlivese. La ricostruzione delle sue origini molto antiche risulta difficoltosa a causa della mancanza di notizie storiche sicure sulla fondazione della chiesa primigenia e sulla figura leggendaria di San Mercuriale al quale è dedicata. Infatti il primo documento che accerti l'esistenza di un monastero benedettino, collocato al di fuori delle mura (la città medievale murata era più ad occidente rispetto al centro attuale), è costituito da un atto di donazione dell'8 aprile 894 dell'arcivescovo di Ravenna a favore dell'abate di San Mercuriale in Forlì. Per quanto riguarda invece il periodo precedente emergono solo incertezze e supposizioni. Infatti si è ipotizzato che San Mercuriale, vescovo dell'antica città di Forum Livii, avrebbe fondato nel IV secolo la prima chiesa cristiana dedicata a Santo Stefano – la cattedrale originale – in una zona al di fuori delle mura, ad est della città. Al momento della fondazione seguì una separazione tra la cattedrale che fu trasferita entro le mura nella sede di Santa Croce e la chiesa primitiva la quale venne trasformata in un santuario, sito nell'attuale centro di Forlì, che custodiva le spoglie del suo fondatore; e lì accanto fu istituito anche un monastero benedettino. La storia del periodo successivo al Mille è ricca di lasciti e donazioni che testimoniano l'espansione del monastero e lo sviluppo della città verso oriente che andò ad inglobare anche il territorio di San Mercuriale il quale risulterà da quel momento compreso entro le nuove mura di Forlì. Ma immediatamente dopo l'incendio rovinoso del 1173, che provocò la devastazione della città e la distruzione del monastero, furono avviati i lavori di ricostruzione al fine di riedificare, nell'area della chiesa distrutta, una nuova abbazia in stile romanico-lombardo. A partire dal Cinquecento fino al Settecento, si sono susseguiti innumerevoli rimaneggiamenti barocchi, eliminati sia dai bombardamenti della seconda guerra mondiale sia dai restauri novecenteschi che mirarono a restituire al monumento quella fisionomia romanica che la contraddistingueva fin dal 1176.

NOTIZIE STORICO-ARTISTICHE

Partendo dall'esterno, la facciata, opera di ricostruzione, risulta interessante soprattutto per la lunetta del portale, dove è inserito il più importante complesso scultoreo romanico. Al centro vi è raffigurata la scena dell'Adorazione con i Re Magi che recano i doni, seguiti sulla destra dalla Vergine col Bambino sulle ginocchia e da San Giuseppe. Sulla sinistra invece la storia del Sogno dei Re Magi è rappresenta dai tre dormienti uno accanto all'altro con l'angelo che appare loro in sogno. Queste sculture, provenienti dalla scuola antelamica, sono scrivibili al XIII secolo e vi si può scorgere in particolare una mano affine a quella del Maestro dei Mesi di Ferrara. Poi spostandoci al campanile di 75 metri, quest'ultimo, posto sul lato destro dell'abbazia, rappresenta uno dei più alti ed interessanti campanili romanici lombardi. Edificato nel 1178 sotto la direzione di Francesco Deddi, possiede pianta quadrata e una guglia di forma conica che svetta in sommità, coronata alla base da quattro torroncini. Le facce della torre sono divise in tre parti da lesene ben evidenti, raccordate da archi ciechi alla base della cella campanaria; invece a livello trasversale, il campanile è suddiviso in cinque piani da cornici ad archetti pensili. Ricordiamo il chiostro quattrocentesco dei monaci vallambrosiani che è posto proprio dietro il campanile e possiede due lati, i quali sono costituiti da loggiati che sono aperti verso l'esterno e l'interno. Passando alla struttura interna di San Mercuriale, essa appare tipicamente romanica, molto sobria e severa, in nudo mattone. Si ipotizza infatti che la ricostruzione delle nuove linee architettoniche sia stato frutto di un'attenta ripetizione di quelle romaniche del XII secolo. La chiesa possiede una pianta basilicale a tre navate, senza transetto, divise nella navata centrale in tre campate da archi trasversali a tutto sesto. Inoltre ciascuna campata è suddivisa in tre parti da archi longitudinali che determinano una scansione in nove campate. In particolare la terza campata era quella dell'antico presbiterio che, precedentemente diviso in due piani - uno sopraelevato per i monaci e una cripta inferiore in cui officiava il clero - fu eliminato in seguito al crollo del 1505. Infatti le attuali pareti della terza campata ne dimostrano la struttura originaria per la presenza di due ordini di archi sovrapposti, dove gli archi inferiori dovevano appartenere alla cripta, quelli dell'ordine superiore costituivano invece il presbiterio sopraelevato. Infine all'interno dell'abbazia si trovano anche altri monumenti di notevole pregio artistico, che sono degni di essere menzionati come il leone stiloforo, che è quanto resta di un protiro che arricchiva il portale, la cappella che contiene il sepolcro quattrocentesco di Barbara Manfredi, moglie del signore di Forlì, eseguito da Francesco di Simone Ferrucci da Fiesole e un'altra cappella con gli affreschi di Marco Palmezzano (1459-1539). Al termine della navata meridionale è posta una croce in pietra che risale all'alto Medioevo e la Cappella Mercuriale che contiene le spoglie del santo patrono, oltre agli interessanti affreschi di Livio e Gianfrancesco Modigliani, commissionati dall'influente Gerolamo Mercuriali (1530-1606).

LETTURE CONSIGLIATE

G. Spinelli, San Mercuriale a Forlì, in Monasteri benedettini in Emilia-Romagna, Milano 1980.

S. Stocchi, San Mercuriale a Forlì, in Italia Romanica. L’Emilia-Romagna, Milano 1984.

A. Colombi Ferretti, L. Prati, U. Tramonti, Il complesso monumentale di San Mercuriale a Forlì: restauri, Forlì 2000.

Pubblicato in Forlì-Cesena
Giovedì 07 Giugno 2012 11:39

ABBAZIA DI POMPOSA

STORIA

Situata nel Comune di Codigoro, l’abbazia di Pomposa manca di fonti storiche che documentino con precisione la sua fondazione. Probabilmente il primo cenobio era già presente nel territorio definito “insula Pomposia” tra il VI e il VII secolo, ma la prima notizia attendibile risale all’874, quando papa Giovanni VIII rivendicava la giurisdizione sul monastero contro le pretese della Chiesa di Ravenna. Nel 982 l’imperatore Ottone II la cita in un atto come oggetto di donazione compiuta dai suoi genitori al monastero di San Salvatore a Pavia. I monaci però riuscirono nel 999 a ottenere dall’imperatore la donazione all’arcivescovo di Ravenna, atto che portò al conseguimento di privilegi e concessioni papali e imperiali che permisero di raggiungere la piena autonomia del cenobio nel 1022.

La fioritura dell’abbazia nei secoli successivi non fu solo legata alle condizioni politico-istituzionali e religiose, ma venne favorita grazie al territorio nel quale sorge il cenobio: l’insula Pomposiana definita geograficamente fino al secolo XII da due rami principali del Po (Po di Volano a sud e il Gauro o Po di Goro a nord) era ubicata lungo la via Popilia, chiamata nel medioevo Romea, perché collegava l’Europa nord-orientale con Roma. Inoltre il luogo separato dal mare Adriatico dalla laguna deltizia, godeva di un clima salubre e di terreni bonificati, altamente fertili. Questo portò ad una forte aumento demografico incentivato da una fiorente attività agricola. Il territorio di proprietà dell’abbazia era amministrato economicamente e giuridicamente con conduzione diretta del monastero mediante il gastaldo giuridico (rappresentante dell’abate).

Lasciti e donazioni arricchirono Pomposa di possedimenti sparsi un po’ ovunque in Italia. L’espansione economica e quella spirituale-culturale progredirono di pari passo, raggiungendo l’apice nell’XI secolo sotto la direzione dell’abate Guido. Fu in questo periodo che il monastero venne ampliato e dotato del grande chiostro (oggi solo parzialmente esistente), di torri, e del palazzo della Ragione, assumendo l’aspetto di una cittadella fortificata.

Nel 1152 con la rotta di Ficarolo (gli argini del Po ruppero in quella località ubicata a monte di Ferrara) il territorio subì un tale sconvolgimento che provocò la scomparsa dell’insula e l’intero impaludamento dell’area. Il lento cambiamento delle condizioni geografiche fu fatale per Pomposa che vide i monaci decimati dalla malaria. Altri fattori che facilitarono la decadenza furono certamente le tensioni politiche presenti nell’Italia settentrionale e le mire espansionistiche degli Este esercitavano da Ferrara.

Nella prima metà del Quattrocento Pomposa venne trasformata in commenda, mentre nel 1553 dipese dal convento di San Benedetto di Ferrara, dove vennero trasportati beni mobili, arredi sacri e la preziosa biblioteca. Il monastero venne soppresso dal papa Innocenzo X nel 1663, ma gli ultimi monaci lasciarono definitivamente Pomposa nel 1671. L’abbazia visse così secoli di totale abbandono, fatta eccezione per la chiesa eletta parrocchia dal 1663. In seguito alle soppressioni napoleoniche, le strutture del convento vennero utilizzate come magazzini agricoli e luoghi di servizio, fino al 1920 – 1930 quando l’intero complesso fu oggetto di restauro che le restituì l’attuale configurazione all’abbazia.

 

 

NOTIZIE STORICO-ARTISTICHE

La chiesa di Santa Maria di Pomposa è caratterizzata da una pianta basilicale a tre navate. L’abside centrale è di forma semidecagona, tipologia caratteristica dell’area ravennate, attestate per un lungo lasso di tempo (per esempio la ritroviamo nella chiesa più antica di San Apollinare in Classe). La chiesa abbaziale fu costruita probabilmente tra il 751 e l’874: parte del tempio è infatti costituito da materiale architettonico di spoglio proveniente da Ravenna, che nel 751 cadde rovinosamente sotto il dominio longobardo per mano di re Liutprando. In questa fase la chiesa, che andava a sostituirsi al primitivo sacello, attorno al quale si era creata due secoli prima la comunità di monaci benedettini, coincideva solo in parte con la pianta attuale; terminava infatti all’altezza dell’attuale settima campata. La struttura della chiesa subì diverse modificazioni, come hanno chiarito gli scavi archeologici. Tra il IX e il X secolo, nel lato sinistro venne costruito un nartece, dotato di bifore a doppia ghiera. Inoltre sempre in questo periodo, probabilmente, la chiesa terminava con tre absidi, di cui quella centrale era caratterizzata da proporzioni maggiori. Da un’iscrizione inserita nel pavimento della chiesa si ricava che il 7 maggio del 1026 (o del 1027) la chiesa venne ridedicata. Questo avvenimento coincide con l’abbaziato di San Guido (1008. – 1046) e quindi con un periodo di importanti trasformazioni e ampliamenti in tutto il monastero. Tra il 1000 e il 1026 venne rifatta la cripta in forma di oratorio,venne inserito all’interno della chiesa il nartece e furono quindi aggiunte due nuove campate. Le finestre del nartece vennero chiuse e fu aggiunto un portale nell’arcata centrale d’accesso; di conseguenza l’ingresso si rimpicciolì notevolmente. Sempre in questo periodo si edificarono l’attuale atrio e il campanile. Si pensa inoltre che questi interventi fossero commissionati dall’arcivescovo di Ravenna, Geberardo (1028-1044). Infatti nell’epigrafe della sua tomba, situata nella sala capitolare del monastero, vi è scritto “PONTIFICIS MAXIMI CORPVS IACET HIC GEBERARDI// PER QVEM SANCTA DOMVS CREVIT ET ISTE LOCVS”, dove per “sancta domus” e per “iste locus” si intendono i lavori di ampliamento sia della chiesa sia del monastero. L’esecutore dell’atrio fu “Mazulo magister”, nome tramandatosi grazie all’epigrafe murata a destra della facciata. L’atrio presenta tre ampie arcate sorrette da semipilastri ottagoni. Si viene quindi a creare una zona d’ombra che fa risaltare agli occhi del fruitore la decorazione di superficie, costituita da mattoni bicolori, sculture, fasce in cotto e bacini ceramici. Negli elementi decorativi si avverte un forte senso di orizzontalismo dato dalle fasce nastriformi in cotto, dalla disposizione dei rilievi di pietra e dei bacini ceramici. Questi ultimi elementi sono estranei alla cultura locale, ma ben si accordano al complesso decorativo. Particolare è infatti la loro inserzione, soprattutto per il loro effetto chiaroscurale nella contrapposizione con gli altorilievi chiari raffiguranti il leone, l’aquila e il pavone. In seguito alla scoperta di residui di vernice negli incavi delle fasce decorative, gli studiosi ritengono che tali elementi decorativi fossero in origine interamente smaltati, ovvero ricoperti di vernice poco lucida in pasta vitrea applicata probabilmente in seconda cottura con tonalità svariate. Nell’impianto decorativo Mazulone utilizzò come punto di riferimento l’arcata centrale creando una composizione fortemente equilibrata. Il repertorio attinge sia dalla cultura orientale, come i bacini ceramici, le transenne in stucco i fregi a tralcio abitato; sia dalla cultura locale come i mattoni triangolari, bicolori, rossi ed ocra. Questi ultimi però vengono utilizzati in composizioni inconsuete che danno vita a motivi decorativi riproposti soprattutto nel romanico bolognese. Grazie ad una lapide posta sul basamento si è tramandato anche il nome del responsabile del campanile, il maestro Deusdedit e l’anno di fondazione, 1063. La torre campanaria presenta l’uso di materiale di reimpiego: come il frammento di ciborio della prima metà del IX secolo inserito sotto l’epigrafe, oppure come il frammento di architrave murato verticalmente. Inoltre gli elementi che costituiscono le finestre sono frammenti tardo antichi, paleocristiani e alto medievali. Nel campanile vennero anche inseriti le formelle in cotto e i bacini ceramici, ma non più nella maniera equilibrata dell’atrio, bensì senza un ordine logico. La torre campanaria poi si conclude con una guglia di età gotica.

All’interno della chiesa sono visibili più cicli decorativi che presero avvio nell’VIII secolo per concludersi nel XIV con gli affreschi di Vitale e della sua scuola con la realizzazione delle storie di Sant’Eustachio nell’abside, dell’Apocalisse lungo la navata centrale e del Giudizio Universale nella parete di controfacciata. Ancora visibili, ma pressoché allo stato di lacerti pittorici, sono i profeti dipinti sulla parete dell’antico nartece, realizzati intorno ai primi decenni dell’XI secolo e le storie di San Pietro lungo la navatella meridionale. La lettura di questi ultimi parte dalla zona absidale e presenta una sequenza degli episodi più salienti della vita del santo: L’apparizione di Gesù sul lago di Tiberiade; San Pietro consacra i primi diaconi; La predica di San Pietro ai neofiti; La resurrezione di Tàbita; La caduta di Simon Mago (?); San Pietro risana lo storpio . Le scene si caratterizzano per grande semplicità linguistica dettate probabilmente dalla funzione didascalica della rappresentazione.

Di grandissimo interesse è il pavimento, il cui disegno è diviso in quattro settori distinti: i primi tre, a partire dalla zona absidale, appartenevano al coro dei monaci, realizzato durante i lavori voluti da San Guido. Il primo tratto in mosaico mostra un disegno geometrico a cerchi intersecati che formano elementi fusiformi con foglie. La vicinanza di questa tipologia decorativa con mosaici provenienti da basiliche ravennati del VI (per esempio Sant’Apollinare in Classe), fa pensare all’uso di materiale di recupero.

La seconda parte del pavimento utilizza una tecnica mista, mosaico e settile: nel campo quadrato spicca un nastro continuo che disegna quattro cerchi angolari e accompagna il gioco di quadrati, triangoli, rombi in minuti pezzi di marmi colorati, disposti in cerchi concentrici. Da un grande tondo centrale partono i bracci di una croce, dove è incisa la data della riconsacrazione della chiesa (7 maggio 1026).

Nel convento si possono visitare l’aula capitolare con affreschi della scuola riminese e il Museo Pomposiano, dove sono raccolti i numerosi oggetti d’arte depositati durante la “fase di abbandono” in diversi luoghi del complesso. La collezione comprende materiali eterogenei che partono dal VI secolo fino al XIX, provenienti da scavi, restauri o ritrovamenti fortuiti, riconducibili alla storia del complesso abbaziale. In particolare si segnalano i plutei pertinenti all’arredo interno della chiesa dell’XI secolo, nei quali sono raffigurati animali fantastici racchiusi entro tondi a nastro intrecciati tra loro.

 

LETTURE CONSIGLIATE

M. Salmi, L’abbazia di Pomposa, Milano 1936 (1966)

Pomposa. Storia, arte, architettura, a cura di A. Samaritani e C. Di Francesco, Ferrara 1999

C. Di Francesco, L’Abbazia e il Museo di Pomposa, Roma 200

S. Pasi. La pittura monumentale in Romagna e nel ferrarese fra IX e XIII secolo, Bologna 2001

Pubblicato in Ferrara

STORIA

La chiesa di Santa Maria Assunta, collocata all'inizio dell'abitato di Castione Marchesi, è quanto si è conservato di un antico complesso abbaziale benedettino, che venne fondato nel 1033 dal marchese Adalberto, capostipite dei Pallavicino e dalla moglie Adelaide. Sebbene a questa data risalgano le numerose donazioni terriere effettuate dallo stesso marchese all'abbazia, tuttavia bisogna ascrivere solo alla metà del secolo successivo la definitiva costruzione del complesso. L'abbazia rimase inoltre fino al XV secolo nelle mani dei benedettini, per poi essere affidata ai monaci olivetani che la reggeranno fino al suo trasferimento alla diocesi di Parma avvenuto nel 1764. Nell'Ottocento la chiesa, intorno alla quale si può facilmente identificare il perimetro delle antiche mura, cominciò ad assumere tutte le funzioni di parrocchiale ordinari. Dopo continui rimaneggiamenti, le significative campagne di restauro iniziate nel 1954 e terminate nel 1958 hanno ripristinato le sue linee originariamente romaniche soprattutto per quanto concerne la struttura interna.

 

NOTIZIE STORICO-ARTISTICHE

A differenza dell'interno, la facciata esterna a doppio spiovente mostra i segni evidenti di un romanico di restauro di dubbia autenticità. L'abbazia è costituita da una struttura basilicale a tre navate, retta da pilastri cruciformi a sistema alternato, con cinque campate nelle navatelle e due nella navata centrale, coperte da volte a crociera. Questa struttura sembra proprio ripetere i canoni architettonici dell'ordine cistercense, pur non facendone parte. Infatti la campagna di restauro novecentesco ha messo in evidenza le affinità di questo monumento con l'architettura dell'abbazia di Chiaravalle della Colomba e di Fontevivo, facendo risaltare la dicromia mattone - intonaco. In ogni caso non risulta del tutto semplice distinguere ciò che è autenticamente romanico da ciò che è frutto di rifacimento, come capita per gli splendidi capitelli dei pilastri che sono scolpiti alcuni con forme geometriche e altri con figure zoomorfe. Inoltre l'elemento più interessante di questa abbazia è caratterizzato dai resti di un mosaico pavimentale, che sono stati scoperti durante i rifacimenti novecenteschi, quando si decise di riportare il pavimento al livello originale. Del mosaico originario sono stati ritrovati pochi frammenti, formati da tessere bianche, nere e rosse, ora per lo più staccati e conservati sulla parete nel corridoio della sacrestia. Tali resti sono molto significativi in quanto testimoniano l'esistenza di un'opera musiva risalente al XII secolo, contemporanea a quelle di San Savino a Piacenza e di San Colombano a Bobbio. In questo mosaico si riesce a individuare un motivo decorativo a racemi, oltre a due mutile figurazioni antropomorfe allegoriche, una delle quali si può interpretare come l'allegoria del mese di aprile. Questa supposizione ci induce a pensare che anche qui fosse raffigurato il famoso ciclo dei mesi. Ma recentemente queste figure sono state interpretate come allegoria delle arti liberali; in particolare sono visibili una donna che regge una sfera come raffigurazione dell’Astronomia, il frammento con figura maschile che regge uno scettro come il Re Davide e il busto proteso in atto di soffiare come la raffigurazione di un Vento.

 

LETTURE CONSIGLIATE

D. Soresina, Enciclopedia diocesana Fidentina,Vol. III, Le parrocchie, Fidenza 1979.

S. Stocchi, L'abbazia di Castione Marchesi, L’Emilia-Romagna, Milano 1984.

R. Farioli Campanati, I mosaici pavimentali di Castione dei Marchesi: nel contesto della cultura ottoniana lombarda, Ravenna 1988.

Pubblicato in Parma
Mercoledì 09 Maggio 2012 12:56

ABBAZIA SANT’ELLERO A GALEATA

 

STORIA

Nella località isolata in vetta ad un monte boscoso che domina l'abitato di Galeata sorge l'Abbazia di Sant'Ellero, che fu fondata, con l'impiego di materiali provenienti dalla decaduta Mevaniola, nel V secolo da Ellero. Questo santo eremita, dopo nove anni di esistenza eremitica, diede vita ad un'attiva comunità monastica proprio presso Galeata. L'abbazia divenne presto un centro spirituale di primaria importanza e crebbe di influenza e di potere, tanto da ottenere il controllo su circa quaranta parrocchie, estese in un territorio compreso tra Romagna e Toscana. Ma dopo essere entrata in costante conflitto con la chiesa ravennate che ne pretendeva il controllo, un terribile terremoto del 1279 determinò la distruzione fin dalle fondamenta del suo monastero. Infatti oggi, proprio a causa delle periodiche scosse sismiche che hanno colpito l'Alta Valle del Bidente nel corso dei secoli, dell'antico complesso monastico rimane solo la chiesa abbaziale. L'abbazia, in seguito a queste vicissitudini, fu più volte sottoposta a diversi interventi di ristrutturazione ascrivibili per lo più al Seicento. Ma nonostante appaia come il risultato di un sovrapporsi di varie fasi costruttive e di numerosi restauri, la struttura odierna sembra aver conservato gran parte delle sue forme originariamente romaniche.

 

NOTIZIE STORICO-ARTISTICHE

La chiesa è caratterizzata da una facciata tipicamente romanica (XI-XII secolo), in grossi blocchi di arenaria. É inoltre dominata da un nobile portale romanico che, restaurato di recente e strombato verso l'interno, rappresenta l'elemento più affascinante dell'intera struttura esterna. Il portale è inoltre costituito da un fascio multiplo di colonnine, che sono provviste di capitelli scolpiti e, nella parte superiore, da un grande rosone. Su questi capitelli, ai monaci sul lato sinistro che simboleggiano la preghiera si contrappongono le sirene sul lato destro che personificano la seduzione. I fianchi dell’edificio sono scanditi da una serie di lesene sempre in blocchi di arenaria che nobilita il resto della muratura. L'interno è caratterizzato da un'unica navata, il cui spazio longitudinale è ampliato da cappelle laterali, dove sono collocati alcuni elementi decorativi e scultorei dell'antica struttura. L'abside, profonda e rettilinea, è preceduta da un presbiterio sopraelevato cui si accede per due scale laterali. Infatti, sebbene l'interno abbia subito notevoli trasformazioni tra il XVII e il XVIII secolo, conserva la tipica struttura medievale con il presbiterio sopraelevato e la sottostante cripta, dove è posto il sarcofago di Sant'Ellero, un'opera bizantina di raffinata scultura. Si suppone che la cripta sia il primitivo sacello del santo, il luogo da cui poi si sviluppò la costruzione dell'intera abbazia. Gli altri elementi scultorei e resti architettonici si trovano all'interno o sono murati in facciata. Infine quasi del tutto originale è l'intero presbiterio: l'arco absidale, a sesto leggermente ribassato, si regge su capitelli a mensola decorati da motivi piuttosto arcaici a palmette, pervenuti danneggiati dall'opera di rifacimento barocca, volta a ricoprire le colonne e la muratura con stucchi policromi.

 

LETTURE CONSIGLIATE

E. Leoncini, L'abbazia di Sant'Ellero nel XIV centenario della morte del suo fondatore, 15 maggio 1958, Città di Castello 1958.

E. Leoncini, con prefazione di Piero Bargellini, L'abbazia di Sant'Ellero, Castrocaro Terme 1981.

S. Stocchi, Provincia di Forlì. L’Emilia-Romagna, Milano 1984.

Pubblicato in Forlì-Cesena
Venerdì 04 Maggio 2012 13:16

Abbazia di San Colombano a Bobbio

 

STORIA

Il monastero benedettino di Bobbio, fondato nel 614 dal monaco irlandese Colombano, fu per tutto il Medioevo uno dei più importanti centri monastici d'Europa e ricoprì un ruolo molto significativo dal punto di vista religioso, politico e culturale. Questo primitivo monastero, durante il governo dell'abate Agilulfo (883-896), fu abbandonato e ricostruito in un'altra posizione con una nuova chiesa abbaziale. Successivamente, quando nel 1040 gli abati di Bobbio ottennero la dignità vescovile e si crearono due poteri separati tra vescovi e abati, si cominciò ad assistere alla decadenza del monastero originario e ad una separazione tra le due chiese; infatti all'abbaziale si contrappose la costruzione nel 1075 di una nuova cattedrale da parte del vescovo-conte Guarnerio. Questi due maggiori monumenti hanno subito nei secoli successivi delle notevoli modifiche, che ci impediscono di ricostruire le tracce delle antichità medievali. Infatti come la cattedrale del vescovo Guarniero fu radicalmente trasformata, anche la chiesa abbaziale di San Colombano, ampliata nel corso del Trecento, è stata ricostruita con forme rinascimentali intorno al 1456 e affrescata a partire dal 1526. Quindi dell'antico complesso abbaziale romanico si conservano solo la torre campanaria, l'absidiola e uno splendido mosaico pavimentale nell'attuale cripta.

NOTIZIE STORICO-ARTISTICHE

L'originaria chiesa abbaziale presentava un interno a croce latina con tre navate e tre absidi, oltre al transetto non molto sporgente. Era divisa a metà da una grata di ferro che separava il coro dei monaci dallo spazio riservato ai fedeli. La composizione pittorica della navata centrale è opera di Bernardino Lanzani da San Colombano al Lambro databile al 1526-30 ed è ricca di figure relative per lo più a santi. L'edificio era provvisto anche di transenne marmoree di epoca longobarda usate per i sepolcri di S. Attala e S. Bertulfo e da un grande mosaico didascalico sul pavimento. Di tutti questi arredi molti si sono conservati, come la cripta trasformata e divisa in due vani separati, dove al centro si trova il sarcofago di San Colombano, sul quale vi sono scolpiti gli episodi più salienti del suo operato. Nella scala di accesso alla cripta, sotto il livello del pavimento, si conserva un esteso brano di mosaico pavimentale dell'edificio antico, che è stato ritrovato nel 1910. Questo mosaico è in gran parte integro ed è ascrivibile alla prima metà del XII secolo. I temi trattati sono simili a quelli presenti nei mosaici di San Savino a Piacenza e di San Michele a Pavia e sono ricavati dal secondo libro dei Maccabei, dalla enciclopedia medievale per quanto riguarda le lotte degli animali fantastici e dalla teoria dei mesi e dei mestieri. É infatti raffigurato un ciclo completo con le allegorie dei mesi accanto ai soggetti simbolici e didascalici. Inoltre il mosaico è diviso in quattro registri, dove nei primi due la lotta tra il bene e il male è raffigurata da un centauro e una chimera che si affrontano, da uomini acefali che combattono contro un drago e da storie bibliche di scontri tra giudei e pagani. Gli altri due registri inferiori invece contengono le allegorie dei mesi all'interno di riquadri separati da colonnine, affiancate da altre due scenette, una delle quali è illeggibile e l'altra raffigura una nave a vela con due marinai. Il complesso abbaziale inoltre ospita il museo dell'abbazia, che contiene una raccolta di materiali archeologici e opere legate alla figura di San Colombano dal IV al XVIII secolo e il museo della città.

 

LETTURE CONSIGLIATE

M. Tosi, San Colombano in Bobbio, in Monasteri Benedettini in Emilia-Romagna, Milano 1980.

S. Stocchi, San Colombano a Bobbio, in Italia Romanica. L’Emilia-Romagna, Milano 1984.

A. Attolini, Il monastero di San Colombano in Bobbio, Modena 2001.

 

Pubblicato in Piacenza
Mercoledì 04 Aprile 2012 07:46

Abbazia di San Basilide a Badia Cavana

NOZIONI STORICHE

L’abbazia di San Basilide sorge a Lesignano de’ Bagni, comune situato in territorio collinare, non lontano dalla città di Parma. La strada che la accoglie, rivestì un ruolo importante verosimilmente sin da epoche molto antiche, fu infatti punto di convergenza di importanti tracciati viari: attraverso quest’antica strada, detta passo del Lagastrello, dalla città di Parma si raggiungeva la Toscana, in tale percorso transappenninico viaggiavano pellegrini, commercianti e artigiani che trovavano ospitalità nei complessi monastici benedettini. La fondazione della basilica è dovuta alla committenza di San Bernardo degli Uberti, monaco vallombrosiano e vescovo di Parma dal 1109, che, per consolidare la propria azione spirituale, invitò la comunità dei vallombrosiani a radicarsi nell’isolata collina di Badia Cavana. Come per altri edifici riconducibili alla produzione romanica, la documentazione è modesta, i dati non tramandano quasi mai una precisa cronologia della fondazione, e nel migliore dei casi abbiamo solamente la prima menzione storica della loro esistenza. Dunque, anche per quanto riguarda l’abbazia di San Basilide, ci sono giunte informazioni poco probanti ma un punto riferimento importante è la prima documentazione che ne fa menzione, risalente al 1115. Nel corso della sua storia il tempio subì diverse trasformazioni: nel 1117, ad esempio, dopo un terremoto, si rese necessaria un’opera di ricostruzione della chiesa, e in questa fase elementi come il nartece vennero addossati alla facciata pur non facendo parte della struttura originaria.

 

NOZIONI STORICO- ARTISTICHE

L’abbazia è architettonicamente organizzata secondo il prototipo vallombrosiano, reitera dunque un’articolazione spaziale a navata unica con transetto sporgente e abside semi circolare. Sulla facciata della chiesa venne aggiunto nel XII secolo un portico a due arcate con loggia superiore ed ornato da capitelli con raffigurazioni evangeliche. Procedendo all’interno della chiesa troviamo accostata alla parete laterale sinistra una doppia scala, posta all’altezza dell’altare che scende fino alla cripta, dove ancora oggi sono conservate le spoglie del Santo al quale la chiesa è dedicata. Sul lato ovest dell’edificio sorge un chiostro, oggi inglobato in alcuni casamenti e dunque non visitabile. A meridione del tempio, incontriamo il refettorio e la sala capitolare, mentre la cripta sepolcrale degli abati e l’accesso alla chiesa riservato ai monaci, sorgono a settentrione della struttura. L’abazia rivela un assetto tecnico edilizio dall’ aspetto severo nel quale risultano peculiari ed efficacissime le essenziali linee e le sobrie colorazioni parietali. Il tempio, infatti, è costituito, come la maggior parte delle chiese presenti sul territorio emiliano romagnolo, da pietra locale, tagliata in conci perfettamente sbozzati e connessi tra loro, onde dare luogo ad una regolare cortina ad opus quadratum.

Pubblicato in Parma
Giovedì 08 Marzo 2012 07:51

Abbazia di Marola

 

STORIA

A poca distanza dall'abitato in direzione di Carpineti, tra il 1076 e il 1092, viene edificata l'abbazia di Marola per munificenza della contessa Matilde di Canossa, come dimostrazione della sua riconoscenza nei confronti dell’eremita Giovanni da Marola, premiato per averla incoraggiata a proseguire la lotta contro l'imperatore Enrico IV. L'abbazia di Marola, divenuta successivamente sede di una comunità religiosa aderente alla regola benedettina, già nel Trecento comincia a mostrare i primi segni di decadenza, per poi essere trasformata in commenda precisamente nel 1348. Dopo l'ulteriore trasformazione seicentesca in residenza fortificata, nel 1747 l'edificio subisce dei radicali interventi di ristrutturazione in linee barocche, che ne mutano completamente l’aspetto originario, con il rifacimento della facciata e l'aggiunta del transetto e della cupola. La chiesa viene poi soppressa in epoca napoleonica e, dopo la Restaurazione, viene riscattata e donata alla Curia di Reggio che nel 1824 decide di destinarla a seminario. Quindi, in seguito a queste modiche richieste dal nuovo progetto, la pieve di Marola appare come un edificio di fine Ottocento, di gusto neomedievale, privo anche delle tracce dei chiostri antichi. Soltanto il parametro murario a fianco dell'abside, dove si trova il torrioncino, rivela l'esistenza di una struttura medievale e la compattezza degli edifici a lato della chiesa evoca la struttura dell'antico monastero. Tra l'altro, nel 1955, viene avviato un progetto di ricostruzione tendente a ripristinare il complesso nella sua struttura primitiva e a restituire l'immagine prevalentemente romanica.

 

NOTIZIE STORICO-ARTISTICHE

All'esterno, l'abbazia presenta una facciata sobria, largamente integrata, che appare costituita da doppio saliente e ornata da un portale in arenaria, affiancato da semicolonne con capitelli scalpellati ad intreccio. L'abside mediana, che si mostra imponente, nitida e pienamente romanica, domina le altre due absidiole più piccole e altrettanto ben definite. La parte centrale è aperta con una monofora a forte strombo ed è terminata da archetti ciechi sormontati da una triplice cornice. Passando all'interno, quest'ultimo è caratterizzato da una pianta basilicale a tre navate senza transetto, a cinque campate su archi a tutto sesto. Le tre navate sono inoltre suddivise da colonne e da pilastri che sorreggono archi semicircolari, mentre il tetto è a tre travi lignee su tutte le navate. I primi due sostegni sono costituiti da colonne cilindriche a differenza degli altri che sono pilastri a sezione squadrata. Le navate sono anche provviste di una copertura a capriate in legno a vista e il presbiterio, che occupa la quinta campata, ha copertura a botte. Infine, per quanto riguarda la decorazione scultorea, all'interno della chiesa è conservato un solo capitello originale di tipo corinzio, intagliato con motivi vegetali, fogliame a rilievo ed eleganti volute negli spigoli. Mentre gli altri capitelli si palesano come il risultato di chiari rifacimenti moderni; invero soltanto pochi frammenti pienamente romanici sono stati riuniti all'interno di un lapidarium del seminario. Tra quest'ultimi risulta interessante quel capitello che riporta un'iscrizione graffita con il ricordo di un'eclisse totale di sole, risalente al 1239.

 

LETTURE CONSIGLIATE

S. Stocchi, L'abbazia di Marola, in Italia Romanica. L’Emilia-Romagna, Milano 1984.

G. Baldini, Considerazioni su alcuni edifici e sculture romaniche del nostro Appennino: Marola, Rubbiano, S. Vitale delle Carpinete e Canossa, 1989.

F. Milani, Il territorio di Marola da Matilde di Canossa ai nostri tempi, Reggio Emilia 1992.

 

Pubblicato in Reggio Emilia

STORIA

Costruita sulla vallata del Samoggia, l’abbazia di Monteveglio, intitolata alla Madonna, venne eretta per celebrare la vittoria di Matilde di Canossa su Enrico IV. L’imperatore infatti venne sconfitto nell’assedio della rocca matildinica Monteveglio avvenuto nel 1092. La storia è quasi leggenda, infatti Enrico IV venne vinto da un pugno di uomini che non solo riuscirono a resistere per mesi, ma persino il figlio dell’imperatore perse la vita nello scontro finale. Fu l’inizio del suo declino: nel viaggio di ritorno in Germania tentò di assalire il castello di Matilde, ma venne sconfitto nuovamente. Tornato in patria fu detronizzato. Come atto di ringraziamento, la grande contessa fece edificare l’abbazia di Monteveglio che si aggiunse alla chiesa già esistente. Il monastero fu affidato all’ordine agostiniano di San Frediano di Lucca, ma nel 1455 passò ai Canonici Laternanensi di San Giovanni in Monte di Bologna. La chiesa viene anche ricordata per aver ospitato Ugo Foscolo, il quale, viaggiando sotto mentite spoglie, venne imprigionato perché sospettato di essere una spia austriaca.

NOTIZIE STORICO-ARTISTICHE

L’assetto attuale dell’abbazia è dovuto dal restauro diretto dall’architetto Rivani avvenuto tra il 1925 e il 1934. L’intento è stato quello di riportare il complesso allo stato originale, eliminando gli ammodernamenti avvenuti nel corso dei secoli, ritenuti posticci e non autenticiFondata nel V secolo, la chiesa mantiene ancor oggi l’assetto romanico, assunto in epoca matildinica. Il tempio presenta una facciata originale del XII secolo orientata a ovest. La pianta è a tre navate, con il presbiterio sopraelevato per ospitare nella zona sottostante l’antica cripta. Questa è divisa da quattro campate di pilastri e colonne, termina con tre altari corrispondenti a tre absidi e in quello centrale è presente un’autentica pietra tombale di epoca romana con decorazione a cornici concentriche. Nella navata destra si trovano opere di epoca longobarda: l’acquasantiera, e uno dei capitelli presenti che riproduce le tipiche forme tratte dall’oreficeria di produzione langobardorum. Da notare le monofore delle absidiole ancora in alabastro e mai sostituiteDalla navata centrale una scala di epoca barocca conduce al presbiterio, posto sopra la cripta e illuminato da monofore chiuse da lastre di alabastro. Al centro del presbiterio a tre absidi c’è l’altare di marmo rosso di Verona, poggiato su cinque colonne mentre ai lati si può ammirare lo splendido coro rinascimentale in noceNotevoli sono pure le splendide absidi visibili dal retro, abbellite da archetti pensili e da monofore. Curioso è inoltre il campanile che non poggia su alcuna fondamenta, ma è stato semplicemente edificato su una delle absidi. All’interno del complesso sono visibili due chiostri, il maggiore, realizzato nel Quattrocento, presenta un loggiato superiore che dava l’accesso alle celle dei canonici. Nel porticato inferiore sono visibili antiche lapidi dipinte volte a ricordare la storia del monastero. Invece, il chiostro più antico, collocato sul retro, è andato in gran parte distrutto: è infatti sopravissuto solo un lato ancora decorato da capitelli antropomorfi risalenti al XII secolo.

 

LETTURE CONSIGLIATE

Nono centenario dell’abbazia di Monteveglio 1092 – 1992, in L’abbazia e la sua storiaatti del convegno di studi, 30 settembre – 11 ottobre 1992, Perugia 1995

G. Rivani, Il castello e l’abbazia di Monteveglio: memorando nei secoli, Bologna 1953

Pubblicato in Bologna
Martedì 13 Dicembre 2011 14:40

San Vittore a Bologna

 

STORIA

Il cenobio venne probabilmente costruito nel luogo chiamato Monte Giardino già nel XI secolo, è infatti documentata almeno dal 1073, inoltre la chiesa romanica, edificata nel XII secolo, mostra nel presbiterio le tracce di un edificio precedente. La chiesa venne poi consacrata dal vescovo Giovanni IV nel 1178, mentre nel 1241 le cronache narrano che il vescovo Enrico II della Fratta volle ritirasi nel monastero e qui morire in preghiera e povertà. Il complesso sembra essere sorto come un luogo di eremitaggio, divenne poi abbazia monastica affidata ai Canonici Regolari Lateranensi e come tale rimase fino alle soppressioni del 1798. Antonio Aldini lo vendette per 980 lire a Pietro De’ Lucca che a sua volta lo passo al centese Giuseppe Civolani. Questi in punto di morte lo donò all’Ospedale di Cento, successivamente venne acquistato dai Filippini nel 1833, ma con le soppressioni postunitarie del 1866 passò al Genio Militare che sconvolse le sue pertinenze. Dato l’alto valore storico ed a seguito dell’interessamento della Deputazione di Storia Patria, il complesso venne affidato al Ministero della Pubblica Istruzione, che nel 1892 lo concesse alla Curia che riaprì al culto la chiesa. Ritornati i Padri Filippini nel 1914 il Comitato per la Bologna Storico Artistica promosse un radicale intervento di restauro, che in parte ripristinò, in parte ricostruì l’identità romanica degli edifici cultuali, del chiostro e del monastero.

NOTIZIE STORICO-ARTISTICHE

La bella chiesa romanica è strutturata in due parti divise da un’imponente diaframma murario alleggerito nella parte superiore da due loggette a tre archiL’impianto è a navata unica e prima delle distruzioni ottocentesche aveva un abside quadrata, il diaframma divide la chiesa in una inferiore, dedicata ai fedeli, e in una superiore, dedicata ai religiosi. Perciò la struttura presenta ancora l’antica divisione tra lo spazio dei laici e quello dei canonici, ma al posto della tradizionale iconostasi qui troviamo un muro separatorio. Lo splendido chiostro venne realizzato, come gran parte degli edifici contigui nel XV secolo. Una delle prerogative della chiesa di San Vittore è che in essa sono conservati alcuni dei più importanti affreschi duecenteschi della regione. Infatti, i lacerti pittorici staccati negli anni Settanta del XX secolo, e ora collocati su pannelli poste alle pareti, sono la testimonianza di un importante ciclo pittorico che nel XIII secolo decorava l’intero edificio. Parte degli affreschi si trovavano nascosti dal quattrocentesco coro ligneo che occupa tre lati (nord, ovest, sud) della chiesa superiore. Il ciclo è stato ricollegato alla figura del vescovo Enrico delle Fratte che qui si ritirò, facendo costruire la parte superiore della chiesa. infatti era collocato l’immagine di San Vittore, l’Annunciazione, i lacerti con la Strage degli Innocenti,  la serie dei profeti, posta su due fasce sovrapposte si trovava invece sulle pareti laterali. La tavolozza è essenziale, gli sfondi monocromatici ed i pochi accenti spaziali evidenziano ulteriormente la dimensione simbolica e devozionale degli affreschi. Invero, il desiderio di tridimensionalità caratteristico alla pittura del Duecento viene esemplato nella serie dei profeti  dalla proiezione oltre il bordo dei piedi. La cultura artistica di riferimento è quella della pittura bizantina diffusa in gran parte del centro e del nord Italia nella prima metà del secolo. In regione gli esempi sono diversi, ma la dignità classicheggiante e la ricercata stilizzazione possono essere avvicinati ai frammenti conservati nella chiesa di Sant’Apollinare a Russi.

LETTURE CONSIGLIATE

AA.VV., San Vittore, in Le chiese di Bologna, Bologna 1992.

Gli affreschi di San Vittore. Restauro e ricollocazione, a cura di J. Bentini, Bologna 2000.

San Vittore, in Duecento, catalogo della mostra, 2000, Vicenza 2000, n. 29, pp. 143-145.

Pubblicato in Bologna
Domenica 08 Maggio 2011 14:46

SANTA MARIA IN REGOLA

STORIA

L’origine del toponimo Santa Maria in Regola deriva con tutta probabilità dal termine latino “arenula” che indicava l’esistenza in epoca romana, nel luogo in cui è stata edificata la chiesa, di un’arena o teatro. Non si può tuttavia escludere l’ipotesi che identifica nella “regola”, quella dei monaci benedettini che qui elessero la loro sede. La prima fonte scritta che menziona il complesso religioso risale al 16 settembre del 998 ma indagini archeologiche e la presenza all'interno della chiesa di opere d’arte assai antiche, confermano l'ipotesi che l'edificio sia stato eretto verso la fine del VI secolo. Nella seconda metà dell'XI secolo vi furono rogate le concessioni del vescovo Morando con le quali egli cedeva alla cittadinanza i diritti di teloneum (dazio sulle merci in transito) e di publicum actum (esazione delle imposte dirette). L’antica ricostruzione trecentesca, di cui rimane debole traccia all’interno dei muri perimetrali che ospitano lacerti pittorici stilisticamente affini all’opera di Vitale da Bologna, è stata completamente cancellata dalla riedificazione avvenuta tra il 1780 e il 1786 ad opera di Cosimo Morelli, per volontà del Cardinal Bandi. Attualmente l’edificio presenta un’aula unica, di pianta quasi quadrata, coperta da una volta decorata da Alessandro Della Nave e Antonio Villa con cassettoni digradanti e al centro un finto cupolino in prospettiva.

NOTIZIE STORICO-ARTISTICHE

L’elemento architettonico più antico è il campanile circolare citato in un documento del 23 marzo 1080 in cui si fa riferimento alla chiesa di Santa Maria in Regola col chiostro e la “torre longa”. La torre, costituita interamente da laterizio, presenta una struttura poliedrica a sedici lati che si restringe progressivamente verso l’alto, sfiorando i 23 metri di altezza. Osservando la muratura è possibile distinguere due settori distinti: dalla base del campanile fino all’altezza di 13,5 metri l’edificio, caratterizzato da monofore tamponate, presenta mattoni dalle tonalità accese, sconnessi e di riutilizzo, la parte più alta è invece costituita da laterizi di altra tipologia e colore assemblati con maggiore uniformità. Da recenti indagini stratigrafiche è emerso che la struttura di base e la muratura al di sopra dei quattro metri sono state realizzate entrambe con mattoni di reimpiego di modulo romano anche se divergono per i materiali e la messa in opera. L’ipotesi più accreditata è che non si tratti di un divario cronologico ma di un cambiamento di tecnica all’interno dello stesso cantiere motivato da esigenze statiche e da scelte funzionali precise. La datazione oscilla tra il X e l’XI secolo e da un punto di vista stilistico il richiamo più immediato è costituito dai campanili cilindrici di matrice ravennate malgrado la pianta a sedici lati della torre imolese costituisca una sorta di elemento distintivo all’interno di questa tipologia. Successivamente tra il XII e il XIII secolo il campanile è stato rialzato e l’intervento di ristrutturazione ha previsto l’apertura di un giro di otto monofore a tutto sesto, attualmente tamponate e di cui ne sono visibili solo sette perché l’ottava è stata sostituita da un’apertura rettangolare senza dubbio più recente. La zona al di sopra dell’estradosso delle monofore presenta oltre al reimpiego di laterizi romani, mattoni di modulo medievale di minor spessore risalenti al XIII secolo. Ascrivibili al XIV e XV secolo sono viceversa gli interventi di tamponamento delle monofore, l’aggiunta di bifore caratterizzate da arcate ogivali e la guglia cuspidata che sorgeva alla sommità, crollata nel 1803. In occasione del restauro del 1896 sull’alzato vennero posizionate due catene circolari di contenimento in ferro, tutt’ora visibili.

LETTURE CONSIGLIATE

L'Abbazia benedettina di Santa Maria in Regola: quindici secoli di storia imolese, Studi e ricerche, tomo I, a cura di A. Ferri, M. Giberti, C. Pedrini, O. Orsi, Imola 2010

L'Abbazia benedettina di Santa Maria in Regola: quindici secoli di storia imolese, Euristica delle fonti documentarie (sec. XI-XIX), tomo II, a cura di A. Nanetti e G. Mazzanti, Imola 2010

E. Prantoni, I misteri inquietanti del campanile di S. Maria in Regola, Imola, Associazione Giuseppe Scarabelli, 2006

M. G. Bassani, Gli ultimi ritrovamenti archeologici nell'antica abbazia di S. Maria in Regola: quante ricchezze d'arte sono ancora nascoste?, in “Pagine di vita e storia imolesi”, 1 (1983), pp. 17-26

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